venerdì 30 novembre 2007

Sicurezza, una percezione sbagliata

«Percezione»: secondo il vocabolario italiano dovrebbe essere l’atto della coscienza con cui si acquista consapevolezza di un oggetto esterno. Da qualche tempo nel nostro Paese non la sicurezza, ma una «percezione dell’insicurezza» che non corrisponde alla realtà è diventata il parametro al quale fare riferimento per adottare determinati provvedimenti.
A livello istituzionale ormai non ci sono più distinzioni. Parlamento, governo ed enti locali hanno tutti adottato questa logica, che del resto ha investito gran parte delle forze politiche, pronte a scontrarsi su tante cose ma invece decise a farsi concorrenza su questo terreno usando slogan e formulando proposte non molto dissimili.
Sono soprattutto gli stranieri a essere al centro di questa tendenza; ma anche gli italiani marginali (compresi i circa 70.000 Rom e Sinti Italiani) ne sono sempre più coinvolti. E «l’oggetto esterno» da conoscere e governare? La voce degli studiosi del diritto penale e quella della sociologia a questo punto contano molto poco, così come il tentativo di fornire qualche informazione sulla realtà che dovrebbe essere percepita.
Ad esempio, può servire a qualcosa dire che nel corso degli ultimi cent’anni, e anche negli ultimi decenni, in Italia come negli altri Paesi europei, in proporzione alla popolazione e in assoluto, è costantemente diminuito il numero degli omicidi e dei delitti contro la persona?
Non si tratta di variazioni da niente: nel 2006 gli omicidi sono stati 621, circa uno per 100.000 abitanti, laddove in precedenza il loro numero era stato di molto superiore, con un picco di 1.901 nel 1991.
Oppure che il nostro Paese è afflitto da una criminalità di grande consistenza - le corruzioni, le frodi fiscali, i riciclaggi di denaro proveniente dalle associazioni mafiose, eccetera - di dimensioni crescenti, con conseguenti ingenti danni per la collettività? No, evidentemente non serve, perché nessuno ascolta.
La verità è che un concetto di sicurezza intesa come ordine pubblico, come ordine nelle strade, è diventato il solo sul mercato della politica e dell’informazione. La domanda di questo tipo di sicurezza, costantemente drogata dalla gran parte dei media, ha accentuato le vocazioni repressive e di esclusione, orientandole innanzitutto nei confronti di quella che un illustre studioso, Luigi Ferrajoli, chiama «criminalità di sussistenza» e più in generale nei confronti della marginalità sociale.
Di qui i vari pacchetti e pacchettini, i nuovi reati e gli aumenti di pena, le misure per rimandare al loro Paese non solo gli extracomunitari ma anche gli europei, le ordinanze di vario tipo di alcuni sindaci contro i lavavetri o in materia di iscrizione nei registri anagrafici dei cittadini comunitari, con tanto di controllo della loro pericolosità sociale (giudizio che compete alle autorità statali) e della persistenza di buone condizioni igienico-sanitarie delle loro abitazioni (cosa non prevista per gli italiani). Che dire? Oggi i diritti appaiono sempre più asimmetrici, e valgono sempre meno per la marginalità sociale.
di Giovanni Palombarini

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