Ci sono volute diverse ore grigie prima
di tornare a quelle note. Prima di riascoltare il timbro
ineguagliabile della chitarra, le armonizzazioni funamboliche, la
pulsazione esaltante del ritmo, l’urgenza vertiginosa del tempo, il
senso meditato e profondo di ogni nota e ogni silenzio. Sono servite
ore sprecate a cercare di darsi una ragione che in questi casi non
esiste. Più che altro ho dovuto celebrare il rito funesto (troppo
frequente di questi tempi) della metabolizzazione di un cambiamento
indifferibile.
Come tanti, in questo momento, ho
provato a cercare una consolazione qualsiasi. Ci si ripete che l’uomo
se ne va ma resta la sua arte; che così è la vita e tutto ciò
serve a fare i conti con la sua finitezza; ci si dice che in fondo è
morto bene, senza soffrire, giocando a pallone su una spiaggia di
Cancun, circondato dai famigliari. Si deve essere molto saggi per
accettare senza riserve tutto ciò, e io ancora non lo sono. Ho
grosse riserve sulla possibilità che tutto ciò risulti veramente
soterico nell’immediato, che possa incoraggiarci. Piuttosto, avrei
preferito continuare a gongolarmi nella certezza di essere un suo
contemporaneo, di poter ancora farmi stupire senza reticenze o dubbi,
di potere nuovamente festeggiare con l’ansia di un bambino l’arrivo
della nuova creazione, di così tanta bellezza in così poco spazio.
Quei dischi hanno una loro forza
intrinseca. Li si avvicina con più timore di altri, con reverenziale
cautela. Fanno parte di una cerchia più ristretta ed elitaria
rispetto alla pletora delle cose belle. Così intensi da lasciare
sempre, dopo ogni ascolto, con la sensazione precisa di non poterne
cogliere che una minima parte ma insieme sempre generosissimi nel
regalare emozioni. Il tempo che trascorre marcato da quei suoni
diventa così “significante”, il suono “segno” e il tutto
“significato”. Forte, intimo, sostanziale, vitale.
Di solito quando si apprezzano così
tanto le opere si tende a rincorrere anche gli uomini che ci stanno
dietro. Li seguiamo, li vorremmo imitare e proviamo a prenderli come
guide. Li chiamiamo Maestri. In qualche modo, questo titolo, lo
riserviamo a chi rappresenta qualche cosa di più che un semplice
modello. Tra i Maestri alcuni diventano eroi, altri ci deludono e li
abbandoniamo, altri ancora li dimentichiamo e poi (presto) li
riabilitiamo; ma irrimediabilmente a tutti ci affezioniamo. Ne
facciamo cari compagni di vita. La morte in questo caso segna solo un
passaggio allora, una tappa forzata e dolorosa, anche un momento che
ci costringe a ripensare. Si ritorna così al suono della chitarra,
alla potenza di un’arte che ha saputo incantare tutti, che ha
stupito tutti, che ha sempre superato se stessa, ad ogni nuova
occasione ed in ogni sua forma. Una chitarra dietro cui c’è, per
certo, un uomo partigiano, consapevole, fragile, devoto. Ma anche un
giardiniere delicato, un pescatore saggio, un buon cuoco e un amico
leale. Un Maestro amato e rispettato da tutti, un inventore dalla
fantasia sconfinata e dal grande coraggio, uno di quelli che non ci
consola saperli morti in pace. di Stefano Liuzzo
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