Leggevo un articolo di Valeriu Nicolae
(interessante come sempre, purtroppo non ho tempo per tradurlo). Tra
la situazione rumena e quella italiana ci sono naturalmente grosse
differenze, ma anche similitudini, che vale la pena di approfondire.
Il pezzo inizia così: "Ritengo che l'effetto più
perverso del razzismo non sia la disumanizzazione né la violenza
(entrambe sono difatti punite dalle leggi di molti paesi), ma
l'abbandono collettivo, a volte parziale e altre completo, delle
nostre auto-percepite (superiori alla media) moralità ed etica in
favore del pregiudizio..."
Pezzo interessante, dicevo, e da qua
vorrei partire per ulteriori ragionamenti. Quello che noi "gagé
antirazzisti" abbiamo sempre denunciato è il razzismo che
percepiamo nel nostro intorno, il motivo della denuncia può essere
morale, solidale, politico... fa parte comunque dei nostri codici.
L'esperienza mi ha insegnato, e
possiamo trovarlo anche in molti casi descritti, è che il razzismo
influisce sulla vittima (che non sempre condivide i nostri codici e
la nostra cultura), non solo con la violenza diretta e indiretta, ma
spesso (non sempre) anche nell'auto-percezione che la vittima ha di
sé come persona e come parte di una comunità.
La persona volonterosa quindi, che
faccia parte di una maggioranza o di una minoranza, quando intende
operare in senso antirazzista, non può limitarsi a contrastare i
razzisti, ma finisce per confrontarsi con gruppi discriminati, che
finiscono per ritenere la discriminazione verso di loro come una cosa
normale e perpetuabile. Così da parte di questi gruppi si mettono in
moto meccanismi di difesa che per "la nostra cultura" sono
deleteri o inaccettabili: dal giustificare il furto come una forma di
rivalsa sociale, all'accettare di vivere di assistenza e carità. di
Fabrizio Casavola, continua a leggere su Mahalla...
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