"Non è molto diverso da allora... C'erano guardie davanti ai cancelli, per non permetterci di uscire, e ora non ci sono: è questa l'unica differenza". Adelaide, una delle abitanti del cosiddetto "campo nomadi" di Mantova, ha abbastanza anni sulle spalle da conoscere la realtà dei campi di internamento nazifascisti, per esservi stata rinchiusa durante la seconda guerra ed è abbastanza lucidità per paragonarli ai campi nomadi di oggi.
Le Aree Attrezzate a Sosta, conosciute come "campi nomadi", nascono come risposta ad un particolare tipo di segnaletica, che comincia a trovarsi un po' ovunque a partire dagli anni '70: sono i cartelli di "divieto di sosta ai nomadi". Questi cartelli, anticostituzionali, creano un divieto solo ad una particolare minoranza etnica linguistica di Cittadini Italiani, se un cittadino italiano non è un “nomade” non ha questo divieto.
Inoltre, questi segnali ribadiscono a tutti un messaggio che condanna l'essere "nomadi". Ma se è il nomadismo che si vuole disincentivare, i segnali sortiscono invece l'effetto opposto: le famiglie rom e sinte, infatti, dovranno spostarsi di continuo, alla ricerca disperata di un sempre nuovo luogo in cui fermarsi, in un gioco folle di cui i nuclei familiari, i gruppi e le comunità non trovano mai la fine.
I cartelli di "divieto di sosta ai nomadi" sintetizzano, dunque, un intero universo di modi di pensare, di pregiudizi e stereotipi, sottintendendo pensieri di esclusione, da parte della cultura maggioritaria: "non puoi e non devi stare qui, non voglio vederti nè vivere insieme a te, la tua vita per me non esiste".
L'allontanamento fisico e mentale conduce progressivamente al rifiuto dell'Altro, alla separazione e sfocia nella negazione del diritto alla vita. E' dunque per rispondere a questo particolare tipo di divieto che le amministrazioni dei Comuni capoluoghi di provincia istituiscono le aree di sosta, che possono essere soluzioni temporanee e provvisorie alla questione habitat per Rom e Sinti.
Ma i "campi nomadi" non si dimostrano affatto temporanei, i decenni passano senza che vengano sostituiti da altre soluzioni abitative. Le aree di sosta ricordano sempre più da vicino i campi di concentramento: sono costrette a vivere gomito a gomito in spazi ridottissimi moltissime persone; le condizioni igieniche sono spesso pessime e la rumorosità generale, di solito piuttosto forte, disturba anziani, neonati, ammalati.
In un "campo nomadi" non esiste privacy. A tutto questo si aggiunge lo stato di precarietà in cui vive chi abita un "campo nomadi": aree sgombrate e rase al suolo nello spazio di una notte, senza alcun preavviso. Inoltre, cosa ancora più grave dei problemi pratici quotidiani, i campi si dimostrano veri e propri ghetti, tenuti volutamente lontani dagli occhi e dalla considerazione della cultura maggioritaria, generati da una politica di esclusione.
Le aree attrezzate a sosta non rappresentano una buona soluzione nemmeno per le amministrazioni comunali che devono sostenere costi di gestione e manutenzione molto alti; questo e tutti gli altri problemi legati alle aree-ghetto dei "campi nomadi" non esisterebbero se esse venissero sostituite da soluzioni abitative più ragionevoli e dignitose, che rispettino il diritto universale all'esistenza e a spazi personali vissuti in dialogo con le altre culture del territorio.
Le alternative cui aspira la maggior parte delle famiglie rom e sinte italiane sono sostanzialmente tre: l'appartamento, il terreno privato e la microarea. Il terreno privato, soluzione in assoluto la migliore per molte minoranze sinte e rom, viene sentito come punto di riferimento stabile, che si contrappone alla precarietà continua della vita nel campo nomadi.
Nel terreno privato si può vivere con la propria famiglia allargata, scegliendo quindi i propri vicini e dirimpettai ed è lì che ci si sente veramente a casa propria. Le famiglie rom e sinte che hanno potuto acquistare terreni privati su cui stabilirsi, finora hanno scelto terreni agricoli, i cui costi sono loro più accessibili rispetto a quelli dei terreni edificabili ma la recente normativa in ambito urbanistico stabilisce che anche roulottes e case mobili sono immobili a tutti gli effetti, necessitano di concessione edilizia e devono quindi essere stabilite esclusivamente su terreni edificabili. E' necessario che le amministrazioni dimostrino sensibilità nei riguardi di questo problema e che le Regioni intervengano sul piano legislativo.
La microarea è una soluzione alternativa al terreno privato: molte famiglie non hanno la capacità economica per acquistare un terreno e per questo l'associazione Sucar Drom chiede l’interevento degli Enti locali per la realizzazione di microaree (2000 / 4000 mq) su base familiare, edificate con casette unifamiliari, sulle quali insediare non più di cinque/sei nuclei famigliari.
Questa soluzione intermedia permetterebbe di eliminare le situazioni di concentramento dei cosiddetti "campi nomadi", mettendo a disposizione spazi vitali più ampi e vivibili ed eliminando i problemi relativi alla convivenza forzata. E' però da sottolineare che tale intervento può generare nel tempo un serio problema abitativo con il costituirsi di nuove famiglie e trasformare tale realizzazione, nuovamente, in luogo di ghettizzazione. Diversa è la soluzione dell'appartamento che è preferita dalla maggioranza delle famiglie rom e alcune famiglie sinte che non svolgono più attività lavorativie itineranti (ad esempio: lo spettacolo viaggiante).
In questi ultimi tre anni l’Associazione Sucar Drom, grazie al sostegno dell’Assessorato alle Politiche Sociali della Provincia di Mantova, ha dato a diverse famiglie l’aiuto necessario per uscire dalla logica assistenziale e ghettizzante del “campo nomadi”.
L'accesso a una delle tre soluzioni proposte non deve far mancare l'elemento fondante ad ogni intervento, la partecipazione diretta di esperti rom o sinti e delle stesse famiglie a cui è rivolto l'intervento abitativo.
Nessun commento:
Posta un commento