lunedì 3 settembre 2007

La paura dei lavavetri

In pochi giorni, anzi poche ore, il fastidio profondo causato dai lavavetri ha preso il posto ­ in prima pagina sui giornali, nelle discussioni cittadine, nello scontro di culture fra governo e opposizione ­ di ben altre turpitudini italiane.
È bastato che il municipio di Firenze approvasse un’ordinanza che punisce fino a tre mesi di carcere chi importuna l’automobilista ai semafori coi suoi servizi, ed ecco che altre notizie come d’incanto sono svanite: a cominciare dalle cartoline recapitate in carcere a Riina e Provenzano («La pace è finita!»), dalla faida sanguinosa seminata dalla 'ndrangheta in Germania, per finire con la minaccia di un politico di primo piano, Umberto Bossi, di ricorrere all’illegalità (scioperi fiscali, fucili) se le tasse continueranno a esser pesanti.
D’un tratto, nulla sembra più criminoso del lavavetri, del posteggiatore abusivo, del venditore ambulante, e in particolare del Rom e del Sinto (“il nomade”). Nulla più malfido del loro modo di presentarsi, d’imporsi, di vestirsi, di abitare. Non mancano le diatribe anche dotte sulla cultura della sinistra e quella di destra, sul Dna dell’una e dell’altra, su quel che fino a ieri le separava e oggi pare invece unirle. O sui difetti indecorosi del solidarismo cattolico, che Rosy Bindi e Romano Prodi anacronisticamente perpetuerebbero.
La società sembra d’altronde compatta, dietro i sindaci che promettono azioni dure per compiacere le paure che si diffondono. Probabilmente sarebbe compatta nel difendere la pena di morte, se nella politica non permanesse una scintilla, almeno, di ambizione pedagogica. Mentre sono denigrati i pochi che dubitano (Marco Travaglio, Furio Colombo, Marco Revelli), che considerano parecchio esagerati gli allarmismi e i vituperi: questi pochi sono trattati come fossero molti, e vengono considerati arcaici, schiavi di stereotipi di sinistra e di ideologie defunte.
Quel che conta è fare subito qualcosa di spettacolarmente repressivo che però non costi inimicizie di lobby troppo potenti: lavavetri o “nomadi” sono ottimi, essendo senza difesa. Ancora una volta, come accade da tempo, chi dà spettacolo di simili severità selettive viene onorato con l’aggettivo Coraggioso, perché sfida quei molti che in realtà sono pochi. Gli altri sono pavidi asserviti a un Dna.
Certo urge ordine nelle città, e la piccola criminalità ­ lo diceva Beccaria ­ va perseguita come la grande se si vuol debellare la cultura dell’impunità. Ma quest’accanirsi eccitato sugli Ultimi e i poveri ha qualcosa di molto sospetto, è un velo che copre indecenze più inquietanti e assai più scandalose latitanze dello Stato. Achille Serra, fino a ieri prefetto di Roma, lo ha detto chiaramente, venerdì in una cerimonia di commiato al Campidoglio. Ha rammentato che Roma è «sufficientemente sicura», per poi aggiungere con una certa ironia: «Oggi si protesta per i lavavetri, ma l’augurio che faccio a Roma è che siano sempre questi i problemi con i quali occorrerà confrontarsi».
Il che è come dire: né Roma né Milano né Bologna né Firenze sono paragonabili a quel che era una parte di New York prima che il sindaco Giuliani introducesse la tolleranza zero. Invocare Giuliani perché ci sono molti nomadi non solo è un’esagerazione menzognera. È un diversivo, utile per dissimulare impotenze o pavidità in altri campi.
Ma non è solo l’esagerazione o il ricorso ai diversivi a colpire. Colpisce la perdita di memoria, su quel che è stata la questione della povertà e del nomadismo nella storia d’Europa. La storia di come nacque la questione sociale e di come la carità medievale finì col degradare, producendo simultaneamente la secolarizzata assistenza pubblica ma anche la grande esclusione e la pratica di punire-bandire i poveri senza lavoro. I poveri un tempo santificati e poi criminalizzati, che in alcune disposizioni medievali venivano chiamati «inutili al mondo» e che nel Seicento inglese furono soprannominati deserving poors (poveri che lo meritano).
Anche questa degenerazione è parte delle radici d’Europa, e specialmente delle sue radici cristiane. È narrata da grandi storici come Bronislaw Geremek ex dissidente e poi ministro degli Esteri polacco, o da studiosi della questione sociale come Robert Castel (Le Metamorfosi della Questione Sociale, Parigi 1995).
È tra la fine del Medio Evo e l’inizio del Rinascimento che il povero senza lavoro diventa figura equivoca, impaurente. Lo si vuole assistere e al tempo stesso allontanare, recludere. L’esclusione degli Ultimi (soprannumerari, Inutili al Mondo) conosce l’acme nel momento in cui la civiltà sembra più raffinarsi: nel Rinascimento, quando si cominciano a sognare utopie di società e città ideali. I massacri di San Bartolomeo, che uccisero duemila protestanti a Parigi e diecimila in Francia, hanno sullo sfondo l’utopia cinquecentesca di una società perfetta, armoniosa, fondata sull’amore e la fede indivisa (Denis Crouzet, La nuit de la Saint-Barthélemy: un rêve perdu de la Renaissance, Fayard, 1994).
Quando Marco Revelli mette in guardia contro queste fantasie igienico - repressive («Guai agli ultimi!», così si conclude un suo articolo sul Manifesto del 29 agosto) non è un vecchio stereotipo che mette in scena. Mette in scena quel che è stato l’itinerario d’Europa, il suo sprofondare e il suo risollevarsi.
Ricorda che il vero stereotipo non è l’assistenza inclusiva del diverso, ma l’illusione (tanto forte anche nel comunismo) di poterlo allontanare dagli occhi bandendolo. Giacché è così, bandendo gli Ultimi, che nell’800 e ’900 è nata ­ apparendo insolubile senza violenza rivoluzionaria ­ la Questione Sociale.
L’esclusione degli Inutili al Mondo non nasce oggi, ha radici nel Medio Evo e diventa organizzazione carceraria a seguito di grandi crisi, come la peste nei primi del ’500. È in quelle occasioni che secondo Geremek sorge la figura doppia del povero assistito ma anche colpevole, senza tetto o come si diceva allora: «dimorante dappertutto».
L’emarginazione-reclusione dell’Inutile al Mondo ha nella storia europea molti scopi. Ha uno scopo religioso, soprattutto a partire dalla Controriforma: è una guerra santa contro i pericoli del tempo che sono il vagabondaggio e la mendicità, considerati come «disordine dei poveri».
Gli ospizi del ’500 e ’600 (Pitié-Salpêtrière, Bicêtre, Compagnia del Santo Sacramento a Parigi) vogliono rifar ordine. Ha uno scopo politico assecondato dalla Chiesa: il povero è classe pericolosa, va rinchiuso o raddrizzato nella migliore delle ipotesi.
Ha scopi igienici, infine. Quando gli odierni fautori della mano dura usano la parola decoro, sono i miti neoplatonici dell’armonia perfetta che resuscitano, senza saperlo. Decoro non è semplicemente ordine, ha una connotazione estetica, mescola il bello a vedersi e il bello morale, l’aspetto e il comportamento.
È significativo che il ministro Amato accenni a questa mescolanza di concetti, dispiacendosene ma senza denunciarla con forza. Quando parla di «percezione di insicurezza» promettendo d’attenuarla, sul Corriere della Sera del 30 agosto, cita d’un sol fiato piccola illegalità, «attività svolte a danno della gente per bene», e «ostilità e diffidenza verso chiunque sia malvestito o malmesso e ci venga vicino».
La storia d’Europa, le sue radici cristiane, sono anche qui. E sono la resistenza a tale degrado, sono la speranza che gli Ultimi non siano trattati come criminali e la povertà non appaia un crimine. È una resistenza che nasce sia dentro il cristianesimo nel ’500 (Filippo Neri difensore degli zingari che Papa Ghisleri ­ Pio V ­ vorrebbe bandire da Roma in quanto empi; Vincenzo de’ Paoli della Compagnia del Santo Sacramento che si ribella agli ospizi-prigioni) sia nella società secolarizzata (sommosse di artigiani e operai, poi nell’800 socialismo). In tutto questo Italia e Roma sono state spesso all’avanguardia: nella crudeltà e non crudeltà.
Si comprende dunque la difesa di legge e ordine: ma a condizione che ci sia un po’ di senso storico, se si vuole che la questione sociale non s’infiammi di nuovo. Scommettendo sull’inclusione, sulla trasformazione di lavori illegali in lavori legali, anche se queste misure non riscuotono subito successo («Fare serie politiche di integrazione significa perdere consensi», dice su La Stampa lo storico Franco Cardini).
I critici dell’esclusione punitiva sono accusati di non aver senso della realtà, ma la realtà non è solo la paura, e soprattutto non è l’uso che si fa della paura per ottenere nervosi consensi unanimi. La realtà sono gli eventuali racket ed è anche la vita degli Inutili al Mondo.
Un’inchiesta di Emilio Radice su la Repubblica, nel gennaio di quest’anno, racconta come essi vivono, abitando non case, non camere, ma «posti testa»: pochi centimetri quadrati di cemento affittati da italiani a 200, 300, anche 500-600 euro al mese, in appartamenti dove si coricano a turno decine di Ultimi. Sono più istruttive inchieste del genere che tanti editoriali inneggianti al coraggio della pura e molto popolare repressione. di Barabara Spinelli (la Stampa)

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