Dopo il «no» alle impronte ai bambini rom, il prefetto romano Carlo Mosca propone di far lavorare i ragazzi dei “campi nomadi” «magari come sciuscià fuori dai supermercati». E subito scoppia la polemica.
C’è chi rimane esterrefatto, chi si chiede se il Prefetto scherzasse, chi trova la proposta inaccettabile e chi la definisce senza mezzi termini: una proposta razzista. Ma c’è anche qualcuno che pensa che offrire un lavoro sia giusto e per alcuni che potrebbe essere un’opportunità.
Il Prefetto risponde così alle critiche: «Non torno indietro, non mi rimangio nulla e poi non ho mai parlato di bambini. Ho parlato di sciuscià, ma avrei potuto dire cuoco, pizzaiolo, calzolaio. Ci sono anche ragazzi italiani che fanno questo lavoro, basta andare dietro piazza San Lorenzo in Lucina per trovare un negozio di lustrascarpe. Vorrei che fosse la comunità rom a decidere il loro futuro. Noi possiamo offrirgli delle possibilità, ma, ripeto, non ho mai parlato di bambini che, nel rispetto della legge, non possono e non devono lavorare, ma di ragazzi al di sopra dei 14 anni».
La spiegazione di Mosca sui nuovi lustrascarpe resi celebri da «Sciuscià», il film capolavoro di Vittorio De Sica, non ha tuttavia chiuso il dibattito.
Il prefetto Mosca ha risposto anche con un'analisi sulla situazione dei bambini rom a Roma a poche settimane dall'inizio del censimento: «In 18 giorni di attività abbiamo constatato che molti bambini non sono vaccinati e non sono iscritti al servizio sanitario nazionale. Ma la salute è un diritto: ecco perché vogliamo che abbiano una tessera per i servizi sanitari. Adesso dobbiamo superare la concezione assistenziale che non giova a nessuno e va bene solo nell'immediato: è giunto il momento di accompagnare i rom, i sinti e i camminanti a crescere e questo è possibile solo con il lavoro».
Mosca ha sottolineato di essersi rifatto «a una proposta di padre Giuseppe La Manna dell'associazione Centro Astalli». Quindi ha ribadito che «nessuno ha la bacchetta magica: non possiamo evitare che i rom siano responsabili del loro futuro. E se non si lavora, si rimane ignoranti. E allora che libertà si ha? Inoltre è necessaria una legge nazionale che riconosca le comunità rom e sinti: sono cittadini che esistono fisicamente, ma non giuridicamente. I tempi sono maturi, anche se questo a qualcuno potrà dare fastidio».
Ma gli sciuscià-rom non convincono proprio l'Opera nomadi: «Mosca non pronunci più questo termine — ha detto il presidente Massimo Converso — perché evoca lo sterminio nazista dei lustrascarpe nomadi nel 1940 sulla piazza di Kragujevac, in Serbia, perché si erano rifiutati di pulire gli stivali ai soldati».
Sciuscià? No, grazie! Noi di sucardrom vorremmo fare una diversa analisi alla proposta del prefetto Mosca che ha tantissima buona volontà ma abbiamo verificato che spesso scivola sulla classica buccia di banana. Niente di male anche perché pensiamo che il Prefetto sia una persona di buon senso e sappia discernere su quanto gli diremo.
Roberto Malini, in un intervento ha scritto: «ve lo immaginate, il ragazzino Rom dalla pelle scura, malvestito, macilento e malinconico prostrato davanti al coetaneo italiano dalla pelle bianca, ipernutrito ad hamburger, patatine e coca-cola e intento a pulirgli le scarpe, con le labbra vicine alla pelle sintetica delle sue Nike?».
Questa immagine evoca ciò che è successo negli Stati Uniti d’America agli afroamericani. Anche in quel caso si diceva: sono bravi nei lavori manuali, perché non sfruttare questa lo predisposizione? E il disastro è ancora davanti agl’occhi di tutte gli americani più avveduti.
In fondo, in fondo quanti scommetterebbero su un ragazzino rom astronauta, o avvocato, o chirurgo? Pochi in Italia, purtroppo pochissimi o forse proprio nessuno a Roma. E qui sta il punto non si riconoscono a questi bambini pari opportunità ma non per farli diventare altro dall’essere Sinti o Rom ma per offrire quelle opportunità che tutti i bambini in Italia hanno e che a questi bambini sono negate non certo dalla cultura Rom o Sinta ma da uno Stato che non li riconosce.
Un bambino a cui vengono negate le opportunità per sviluppare le proprie capacità sempre sarà bravo nei “lavori manuali”, perché solo lì ha avuto delle occasioni di crescere le proprie ricchezze.
Il problema investe prima di tutto lo strumento sociale scuola che in Italia ha completamente fallito nei confronti dei bambini sinti e rom ma non solo perché questo strumento non è riuscito ad offrire la mobilità sociale che esiste in tutti gli altri Paesi occidentali.
Sembra che il Ministro Gelmini stia preparando un piano a favore della scolarizzazione dei bambini sinti e rom ma crediamo che non si discosterà molto dalle logiche assimilanti che fino ad ora sono state, giustamente, fermate dalle famiglie sinte e rom.
Anche in territori, dove sono sviluppate politiche partecipative, pochissimi sono gli operatori scolastici consci della problematica esposta e difficilmente supportano i bambini e gli adolescenti sinti e rom a pensare all’università. Nella quasi totalità gli stessi insegnanti spingono i bambini verso scuole professionalizzanti, replicando il meccanismo già utilizzato per i bambini afroamericani.
Siamo anche quasi sicuri che nel piano che sarà predisposto dal Ministro Gelmini non sarà previsto nessun sostegno economico alle famiglie di questi bambini, strumento indispensabile per uscire da logiche razziste.
Partecipazione? Si, grazie! Ciò che però nessuno rimarca sono le parole e le azioni del prefetto Mosca a favore di un’effettiva partecipazione dei Sinti e dei Rom capitolini. Il Prefetto e, dobbiamo riconoscere, anche il Sindaco Alemanno sono gli unici rappresentanti delle Istituzioni italiane che oggi si stanno spendendo su questo tema per noi fondamentale.
La partecipazione diretta di Sinti e di Rom non sarà certo il frutto di una qualche forma di autopoiesi; non sarà il prodotto di estemporanee illuminazioni e non sarà neanche il risultato, comunque non solo, di profonde riflessioni ma si costruisce offrendo reali spazi decisionali a tutti i livelli. E ciò a Roma non è successo, siamo solo in una fase consultiva e non certo di piena partecipazione.
Quando abbiamo iniziato il nostro percorso a Mantova, nel 1970, una difficoltà che abbiamo incontrato è sul come può essere considerata la partecipazione. Lavorando e discutendo insieme abbiamo identificato due distinti approcci alla partecipazione.
Il primo può essere definito un approccio strumentale che vede il coinvolgimento dei Sinti e dei Rom come mezzo per raggiungere gli obiettivi di un determinato progetto (pensato da appartenenti alla società maggioritaria) nella maniera più efficiente, efficace e sostenibile. Quello che di fatto sembra che stia succedendo a Roma. La partecipazione può essere una sorta di "condizionalità" imposta dall'alto o il risultato di una mobilitazione "volontaria" che punta all'ottenimento dei benefici materiali offerti dal progetto. Questo approccio è, nel migliore dei casi, quello utilizzato nel Paese. In effetti, dispiace affermarlo, ci sono moltissime realtà in Italia che non impiegano nessun approccio alla partecipazione, ripetendo la solita frase tipo: “noi li chiamiamo ma loro non vengono…”.
Il secondo approccio vede la partecipazione come un fine in sé, mirante al rafforzamento del potere dei Sinti e dei Rom (empowerment) in tutti i processi decisionali che li riguardano, accrescendo il loro controllo sulle scelte relative ai processi di cambiamento. Nuove capacità acquisite attraverso il processo partecipativo stimolano un ruolo attivo e dinamico delle comunità Sinte e Rom che si espande oltre i confini di un progetto particolare e investe processi di trasformazione sociale di più vasta portata.
Mentre il primo approccio privilegia le strutture e i risultati della partecipazione, il secondo si concentra su un processo che non ha necessariamente un obiettivo preciso ma che stimola cambiamenti profondi nei rapporti tra le diverse società.
Uno dei problemi che è alla radice della non partecipazione dei Sinti e dei Rom è quello economico. Difficile che un Rom o un Sinto riesca a partecipare, magari gratuitamente (volontariato), se ha difficoltà a procacciarsi il sostentamento giornaliero ed è costretto a vivere in un “campo nomadi”. Su questo problema è importante investire ingenti risorse.
Crediamo che anche la politica del futuro, sempre più globalizzata, sarà caratterizzata da questa nuova dicotomia: chi è per la partecipazione e chi è contro la partecipazione; chi intende fare evolvere la democrazia verso forme di maggiore coinvolgimento dei cittadini e chi vuole perpetuare la staticità dei rapporti politici incardinati al principio della delega.
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