Il titolo, nonché tema della rassegna, è «teatro civile». Non solo civilissimo, ma anche entusiasmante e commovente è stato l'inizio di questo festival, approfondimento spettacolare di Festambientesud, che dal debutto dell'anno scorso a Monte Sant'Angelo, si è insediato ora negli spazi suggestivi di Vico del Gargano, a strapiombo sul mare.
La prima immagine a conquistare la scena, al di là di anteprime e inaugurazioni, è stata quella danzante di un gruppo di ragazze rom, Chelja Celem (appunto «ragazze che danzano»), del campo romano di via Lombroso. Ragazze ma anche bambine di meno di dieci anni, che con il fascino di colori e costumi proiettavano e rendevano davvero credibile e plausibile un mondo molto diverso da quello orrido corrente di emergenze e impronte digitali.
Vitalità e grazia, impertinenza e malinconia in una danza che cita quella del ventre, ma mette piuttosto a nudo pregiudizi e sospetti di chi assiste.
Metterle a copertina della rassegna, è stata una bella scelta della direzione di Maria Teresa Surianello e di Festambientesud, anche perché poi ogni spettacolo successivo ha avuto modo di articolare riflessioni e approfondimenti su un tema o spicchio particolare dell'ambito civile che ormai il teatro sembra uno degli strumenti più affilati per analizzare. Innanzitutto dal punto di vista storico, con linguaggi plurali e diversi come gli artisti che vi danno corpo.
Gli occhi di Piero, ad esempio, racconta a un paese e a generazioni afflitte da perdita di memoria, la vicenda di Piero Bruno, lo studente dell'Armellini e militante di Lotta continua ucciso dalla polizia nel 1975 durante una manifestazione per il riconoscimento dell'Angola indipendente e contro lo Zaire che la voleva sopraffare.
Un attore brillante come Fabrizio Giannini (noto finora per le sue apparizioni televisive o per il personaggio romanesco di Cascini) riesce a dare di quella vicenda anche i contorni agghiaccianti, sul testo rigoroso scritto da un giovanissimo Massimiliano Coccia, immergendolo nella quotidianità pigra e sfottente di un condominio dell'Esquilino (davanti al quale avvenne effettivamente la tragedia), sdoppiando i piani del racconto tra la Roma di oggi (che partecipa al G8 genovese) e quella di trent'anni fa, e il proprio personaggio narrante con quello del padre portiere di quello stesso stabile. Modi inusuali di comunicare al pubblico passione civile, ma capaci di entusiasmarlo se questo avviene con grazia e delicatezza.
Oppure con il rigore dei fatti e dell'attribuzione delle responsabilità, come fa il tarantino Alessandro Langiu che torna a disegnare una geografia crudele di vita e dolore tra la sua città e Brindisi, lungo l'asse infernale della statale 7 Appia al suo termine. Intrecciando, come ha dimostrato già di saper fare in altri racconti, esistenze diverse, ma accomunate dallo sfruttamento e dalle conseguenze dolorose che sono costrette a pagare. Quasi a dispetto delle leggi euclidee, se a Taranto e Brindisi si aggiunge Manfredonia, nasce una mostruosità geometrica peggiore delle Bermude: un triangolo la somma dei cui angoli dà zero.
Angolo somma zero, come suona il titolo, perché quell'infernale incrocio di luoghi, un potenziale di pericolosità e inquinamento che ha pochi rivali in Europa, produce morti bianche su cui cade ineluttabile il silenzio. E non è ideologia, perché il racconto di Langiu è documentato e vivacissimo, col fioraio che percorre l'Appia all'alba per procurarsi i vasi, e il venditore di questi che deve cambiare tenuta ogni volta che va in tribunale a combattere contro i colossi industriali della morte.
Di fronte all'attore che racconta con la voce e col corpo, c'è quell'altra presenza ad alto potenziale che è Peppe Voltarelli, non più Parto delle nuvole pesanti, ma facitore attivo di teatro con la voce, la chitarra e la fisarmonica, la presenza autorevole e aggressiva. Un concerto che rovescia, almeno per il tempo dello spettacolo, la passiva rassegnazione che segna ogni volta la notizia di una nuova mortale disgrazia sul lavoro.
Del resto proprio Langiu ha pubblicato di recente da Piero Manni editore, Di fabbrica si muore, scritto assieme a Maurizio Portaluri primario oncologo a Brindisi: una ricerca crudele e appassionata su Nicola Lovecchio, operaio del petrolchimico di Manfredonia morto di tumore, protagonista dello spettacolo precedente di Langiu, Anagrafe Lovecchio appunto.
Ma non si pensi che sia monocorde la linea di questo «teatro civile festival» sul Gargano. Ci sono spettacoli che arrivano a compiersi in piccoli gioielli di rappresentazione, come Angelo di Roberta Sferzi che in una vera prova di bravura rovescia nello stomaco dello spettatore le inquietudini affluenti del Nordest; o la rarefazione minacciosa delle creature meridionali di Malastrada di Tino Caspanello; o la rincorsa disperata della memoria di uno dei tanti puzzle irrisolti che Manachuma Teatro compie nel grumo ancora bruciante del «boia chi molla» con 70 volte sud. O come Elena Guerrini che fruga nella propria memoria contadina la possibilità di nuovi e più corretti rapporti con l'ambiente in Orti insorti.
Ma ci sono anche opere all'apparenza più «leggere», ma che alla danza e alle visioni affidano una lettura ancor più temibile della realtà. Oscar dolls, di e con Stefano Taiuti, mostra dapprima un corpo con testa di maiale che con grazia e altrettanta metodica libidine si accanisce su una distesa di bamboline pigolanti. Poi dallo schermo, una creatura femminile alla Marlene compie una escalation fetish sull'uso improprio di scarpe dagli altissimi tacchi. La terza parte fornisce il finale a chiave: quel maiale di Oscar si presenta alle elezioni, si può immaginare con quali argomenti. Impossibile non temere che i resti di quelle bamboline sgangheratamente sparsi, potrebbero aspirare ad alte cariche dello stato.
La rassegna prosegue, e non mancheranno altre sorprese; gran finale mercoledì 6, con l'Orchestra di piazza Vittorio, una giusta armonizzazione in musica di tante tematiche brucianti che in questi giorni si sono intrecciate. di Gianfranco Capitta
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