giovedì 30 ottobre 2008

Oshadogan, il razzismo esiste

Oshadogan di nome fa Joseph Dayo. E Dayo in nigeriano sta per “sii felice”. Un nome e uno stato d’animo, quello del difensore centrale della Virtus Lanciano. Papà nigeriano e mamma italiana, lui è stato il primo calciatore di colore a vestire la maglia azzurra, nel 1996. E’ nato a Genova, ma è pisano a tutti gli effetti. E durante la carriera è stato protagonista di un braccio di ferro con la Ternana, la squadra contro la quale giocherà domenica.
Oshadogan, dopo una stagione in serie B chiusa con la retrocessione dei rossoverdi, è stato messo fuori rosa nell’estate del 2006, insieme ad altri giocatori.
Sotto contratto, ma impossibilitato ad allenarsi con i compagni per ordine della società. Una vicenda di mobbing finita nelle mani dei giudici della Figc che hanno dato ragione al calciatore. L’ex tecnico della Ternana Raggi arrivò ad ironizzare sul conto di Oshadogan, dicendo che era un buon golfista. E lui si presentò all’allenamento in tenuta da golf con tanto di mazza al seguito. A distanza di tempo, però, Joseph Dayo non serba rancore. E, alla vigilia della sfida del Biondi, ricorda l’esperienza rossoverde senza alimentare veleni.
Oshadogan, come è arrivato a Terni?
«Conoscevo mister Sala che mi ha voluto. Ma è stata una stagione (2005-2006 in serie B, ndr) con alti e bassi. Anzi, più bassi che alti. Un casino, un campionato nato male e finito peggio».
Nell’estate del 2006, dopo la retrocessione, l’hanno messo fuori rosa.
«Senza motivo, dalla sera al mattino».
E lei si è rivolto alla giustizia sportiva.
«Che mi ha dato ragione su ogni fronte. Non porto rancore, perché tutti mi hanno aiutato. Anche la gente di Terni con la quale ho avuto un rapporto splendido, nonostante il braccio di ferro con la società. Da parte mia, ho solo cercato di tutelare il mio lavoro».
Con la Ternana non ha più giocato.
«No, perché ho ottenuto lo svincolo e sono andato a giocare in Polonia. Io cerco sempre di trarre l’aspetto positivo in qualsiasi esperienza. E se la Ternana non mi avesse messo fuori rosa non avrei mai avuto la possibilità di conoscere Boniek e di andare a Lodz».
Ex senza rancore, esulterà se farà gol?
«Ultimamente, sono stato all’estero e non ho ben capito questa moda di non esultare quando si fa gol a un’ex squadra. Personalmente, potrei non festeggiare solo perché con i ternani ho avuto un rapporto speciale».
E’ stato il primo calciatore di colore a vestire la maglia azzurra.
«Ma la mia emozione è stata forte perché ho indossato la casacca dell’Italia, il mio Paese. Non per il colore della pelle diverso da quello degli altri».
E quell’esperienza è entrata a far parte di un libro.
«Sì, Black Italian’s di Mauro Valeri, un sociologo della Sapienza di Roma. 39 storie di atleti di colore che nelle varie discipline sportive sono arrivati fino alla Nazionale. Tra l’altro, è diventato un libro di testo in qualche università».
Ha dovuto fare i conti con episodi di razzismo?
«Si ostenta un non razzismo che, però, nella quotidianità c’è sempre. Culturalmente, infatti, l’Italia non si identifica con il colore scuro della pelle. E’ inutile prendersi in giro, è questo il problema».
Lei ne ha sofferto?
«Il problema è tutto degli altri, non mio».
L’ultimo episodio di cui è stato protagonista?
«L’anno scorso a Pisa, la mia città. Sono andato a vedere Pisa-Spezia, una partita a rischio di ordine pubblico e quindi riservata solo ai residenti. Ho acquistato il biglietto in prevendita, esibendo un documento. Vado allo stadio con mio figlio e gli amici. Ai cancelli fanno entrare tutti, ma non il sottoscritto. I carabinieri mi chiedono: “Ma lo sa che possono entrare solo i residenti?”. Ho impiegato un po’ di tempo per far capire che sono italiano e pisano doc. Ma loro si sono fatti ingannare dal colore della mia pelle».

Il momento più bello della carriera?
«Le tre gare in Nazionale, l’esordio in serie A. E poi la panchina nella semifinale di Champions League, quando giocavo nel Monaco, contro il Chelsea. Pillole di felicità calcistica».
Il miglior allenatore che ha avuto?
«Bersellini, a Pisa, per me è stato fondamentale. Ma ho imparato tanto anche da Caso, da Capello e da Deshamps».
E il miglior presidente?
«Il mitico Romeo Anconetani. Quando ero a Pisa ha indirizzato la mia vita e la mia carriera. E’ stato importante per me».
Che cosa la fa arrabbiare in mezzo al campo?
«Odio perdere, mi fa star male. Anche perché mi affeziono alle maglie che indosso. Per me è come avvertire un senso di appartenenza».
Dicono che lei abbia un bel caratterino.
«Mi piace dire le cose in faccia. E non sopporto che qualcuno decida per me. Nel mondo del calcio, dove regna la diplomazia, le spigolature del mio carattere mi hanno creato dei problemi. Sono dell’avviso che non si può andare d’accordo con tutti».
Anche lei, come tanti calciatori, è pieno di tatuaggi.
«Ne ho cinque, di cui uno è una croce pisana con dentro i numeri che rappresentano la mia vita».
Tatuaggi, ma niente veline in passato.
«Non sono il tipo. Anche se ne ho avuto la possibilità, non ho mai frenquentato certi ambienti. Ho altri hobby: mi piace giocare a golf, suonare il violino, andare a teatro e ascoltare la musica classica. E poi...».
E poi che cosa?
«Spero di arrivare alla laurea, ce la metterò tutta».
E la Virtus Lanciano?
«E’ stata una mia sfida, credo di poterla vincere».
Non sta andando bene.
«Ho vissuto tante situazioni difficili. L’esperienza maturata in tanti anni nel mondo del calcio mi dà fiducia: ne usciremo fuori bene». di Rocco Coletti

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