sabato 22 novembre 2008

Labambina

“Non ha nome, Labambina”. È questo l’incipit del romanzo di Mariella Mehr, scrittrice Sinta Jenische di origini svizzere; e proseguendo nella lettura, ci accorgeremo che questa prima frase è pesante come una pietra, il primo degli infiniti macigni che dal racconto piovono su chi legge, mirando dritto al cuore.
Chi conosce un poco la storia dell’autrice, per tutte le centocinquanta pagine del libro non fa che chiedersi se la storia sia autobiografica: ‘Labambina’ è Mariella Mehr stessa? È questo, il nome che per tutto il libro resta taciuto?
Si tratta, ahinoi, di un dubbio lecito, dettato dai paralleli che esistono tra la storia (storia di fantasia) de Labambina e la storia (storia di realtà che supera la fantasia) dell’autrice. Un tratto, in particolare, accomuna le due donne: l’esclusione.
Escluse dalla liceità: Labambina è figlia dell’incesto; la Mehr è figlia di ‘zingari’, che nella Svizzera degli anni ’50 forse era anche peggio.
Escluse dal coro della comunità maggioritaria e della cultura dominante, estranee per eccellenza del villaggio (reale o metaforico) che le ospita, arcigno, atterrito e bigotto.
Escluse dal lusso del chiamarsi, definite sempre da altri: Accidentidiunabambina, puttanella, sudiciamarmocchia, l’una; Zingara, l’altra.
Escluse dal diritto all’amore di chi le ha generate, tolte entrambe a madri considerate devianti ed inadatte al compito, e trapiantate zelantemente in famiglie più consone: tanto Labambina, quanto Mariella Mehr, vittima dell’azione della Pro Juventute, che nella Svizzera di non molto tempo fa si premurava di togliere i figli alle famiglie rom-sinte ed affidarli a famiglie contadine ‘normali’, affinché crescessero in un ambiente sano.
Escluse dalla possibilità di avere una voce - un sopruso che l’autrice esplicita con una metafora: Labambina è muta. “Labambina non parla, non ha mai parlato”, ci avverte la prima pagina, “ha solo una vocedaria”. Non esce una sola parola, dalla sua bocca; tutto quello che sappiamo di lei viene dai suoi gesti violenti di animale braccato, dai lampi che le attraversano gli occhi, dal terrore che invade le sue notti. Nel suo mondo autistico ci introduce una lingua inventata, la lingua assurda e vuota di una bambina che è stata svuotata, e che non conosce altro che violenza.
La violenza, allora, è l’unica lingua che tutti i personaggi del racconto intendono, l’unico resto di vitalità in un panorama arido e cupo. La violenza sul corpo, la violenza sulla mente, la violenza sui ricordi, sui sogni e sui rimpianti. La violenza subita, che sembra non poter avere mai fine, e la violenza restituita, quella che la “bambinadiguerra” infligge per vendetta, forse solo per risposta.
Perché Labambina – nonostante quel che può sembrare – non è una vittima, così come non lo è Mariella Mehr. Semmai, sono sopravvissute.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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