L’ampia ricerca “Adozione di minori rom/sinti e sottrazione di minori gagé” commissionata dalla Fondazione Migrantes al Dipartimento di Psicologia e Antropologia culturale dell’Università di Verona e alla direzione del Prof. Leonardo Piasere, si articola in due studi volti a rispondere a differenti ma complementari interrogativi.
L’uno –– in corso di pubblicazione presso CISU – volto a verificare quanti bambini figli di rom o sinti siano stati dati in affidamento e/o adozione dai Tribunali per i Minori italiani a famiglie gagé, condotto da Carlotta Saletti Salza. L’altro – già edito dallo stesso editore col titolo “La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007) – sui presunti tentati rapimenti di infanti non-rom da parte di rom, condotto da Sabrina Tosi Cambini.
Il progetto di ricerca “Adozione dei minori rom e sinti” prevedeva la raccolta il più esaustiva possibile di dati documentati relativi all’affidamento e all’adozione di minori rom e sinti a famiglie non rom da parte dei tribunali dei minori italiani, nel periodo compreso tra il 1985 e il 2005, nonché un’analisi dei dati raccolti.
La scelta è stata quella di condurre una ricerca sull’affidamento e sull’adozione dei minori rom e sinti a partire dai dati relativi alle dichiarazioni di adottabilità che sono registrati presso le sedi dei tribunali minorili e dalle informazioni raccolte nei servizi sociali di territorio, comunali e ospedalieri, in materia di allontanamento dei minori dal nucleo famigliare.
Quindi, sono stati raccolti i dati relativi alle dichiarazioni di adottabilità presso otto (Torino, Bologna, Bari, Lecce, Trento, Firenze, Venezia e Napoli) delle ventinove sedi dei tribunali minorili e sono stati svolti colloqui con i servizi sociali di riferimento. Complessivamente, i casi di minori rom e sinti dichiarati adottabili sono oltre duecento.
I dati raccolti in ciascuna delle sedi dove si è svolto il lavoro di ricerca mostrano differenze rilevanti legate al contesto storico e sociale all’interno del quale, nel corso degli anni, si sono inserite le differenti comunità rom e sinte. Per fare un esempio, vi sono situazioni nelle quali troviamo una mancanza di tradizione del lavoro dei servizi sociali (come a Lecce, dove assistiamo a una pericolosa inversione di ruoli dal momento che l’Autorità Giudiziaria minorile si sostituisce alla tutela sociale che dovrebbero invece esercitare i servizi di territorio) e contesti nei quali invece i servizi sociali vantano una sorta di specializzazione nel lavoro con le comunità rom (vedi il caso di Firenze, Torino, Venezia), con una pericolosa stigmatizzazione della cultura da parte dei differenti operatori coinvolti.
Nel complesso, l’analisi dei dati mostra la facilità con la quale, nelle diverse realtà analizzate, la tutela sociale (dei servizi di territorio) e civile (dell’Autorità Giudiziaria) scivolano nell’indifferenziare l’identità di un minore rom con quella di un minore maltrattato. Come se la cultura “altra” potesse fare del male al bambino. Questo è ciò che pensano molti degli operatori incontrati. Tutti i minori rom, in quest’ottica diventerebbero dei bambini maltrattati.
L’intervento di tutela operato in molti contesti diventa quindi quello di allontanare, togliere il minore dal suo contesto famigliare, per educarlo, come se la cultura rom non avesse un modello educativo o, per lo meno, come se la cultura rom non avesse un modello educativo valido. I concetti impliciti che precedono questa riflessione propria di molti operatori così come di molti magistrati minorili, vedono il bambino rom come soggetto di una situazione di pregiudizio solo e proprio perché è rom o perché vive su quel pezzo di terra dove si trova il “campo nomadi”. Precisamente, i presupposti impliciti di molti operatori sono che:
- la cultura rom è da considerarsi “mancante”, sempre e comunque, con tutti i bambini;
- nella cultura rom vi è un’assenza delle capacità genitoriali;
- da parte dei genitori e/o della famiglia rom vi è un’assenza della tutela dell’infanzia.
Sono proprio questi i presupposti in funzione dei quali l’intervento di tutela sociale e/o civile del minore rom diventa facilmente quello di tutelarlo dalla sua famiglia o dalla sua cultura. Cosa accade allora ai minori rom? La ricerca svolta evidenzia che la difficoltà di molti operatori nel riconoscere l’identità del bambino rom, il suo modello educativo, porta a gravi situazioni in cui di fatto il minore non viene tutelato.
I circa duecento casi riscontrati di dichiarazione di adottabilità, infatti, denunciano un grave “pregiudizio” (così come inteso dal codice civile) nel quale si troverebbe questa volta non il minore rom, ma il contesto istituzionale che ruota intorno a quella che dovrebbe essere la tutela di qualsiasi minore. Una tutela dalla quale il minore rom, paradossalmente, resta escluso.
Abbiamo quindi situazioni nelle quali i minori trovati in strada da soli o con gli adulti di riferimento vengono allontanati dai genitori e poi inseriti in comunità. Una volta in comunità il provvedimento del Tribunale dei Minorenni dispone che i minori non possano più incontrare i propri famigliari, fino al termine dell’istruttoria.
Concretamente questo vuol dire che potrà accadere che i bambini non possano più incontrare i propri genitori per lunghi mesi, con gravi conseguenze nella loro relazione. Gli avvocati che seguono questi casi affermano che, probabilmente, in questi casi, il reale interesse dei vari operatori coinvolti è di trovare il maggior numero possibile di minori per le famiglie non rom che fanno domanda di adozione.
Come reagire di fronte a queste gravi denunce? Oppure abbiamo casi in cui i minori vengono allontanati dalla famiglia perché i servizi sociali valutano che le condizioni abitative del nucleo, ovvero quelle del “campo nomadi”, non sono adeguate alla tutela di un minore. Ancora, molte volte ci troviamo di fronte a casi di allontanamento che avvengono con molta violenza, sulla base del mero pregiudizio personale di un operatore qualunque che scrive che quel minore non è tutelato perché “mangia con le mani” o “non indossa il pigiama per andare a dormire”. Con quale presunzione noi non rom continuiamo a immaginare che il nostro modello di vita sia il migliore e quello ideale? E, soprattutto, chi lavora nel sociale non dovrebbe avere una formazione adeguata per lavorare con soggetti che appartengono a culture differenti?
Talvolta la responsabilità della mancata tutela del minore viene data alla cultura, talaltra alle istituzioni, che non sarebbero in grado di offrire a questi nuclei situazioni abitative appropriate. In entrambi i casi, il risultato è che non viene salvaguardato l’interesse del minore di vivere nella propria famiglia. Accadrebbe lo stesso se si trattasse di minori italiani?
Non si vuole qui escludere che possano esserci situazioni di abbandono dei minori rom, non si vuole accusare gratuitamente il lavoro degli operatori, ma si vuole mettere in evidenza la contraddizione nella quale invece cadono in molti (sia gli operatori sociali che della magistratura minorile), identificando sempre il minore rom come abbandonato, potremmo dire, “alla” e “dalla” sua cultura.
Possiamo aggiungere quindi che il tema attorno al quale si sviluppare questa analisi è quello di tutela. Qual’é la nostra concezione tutela e qual’é quella dei romá? Cosa accade al bambino rom mentre per l’operatore si sta verificando una situazione di maltrattamento? Da questo interrogativo si apre una riflessione su due aspetti.
- Sulla definizione di quella che viene genericamente definita come la soglia in funzione della quale l’operatore, genericamente inteso, stabilisce che il minore si trova in una condizione di “pregiudizio”. Una soglia viene banalmente interpretata e descritta con un criterio di tolleranza personale: per qualcuno sono i piedi scalzi, piuttosto che il furto o l’accattonaggio o l’appartenenza alla cultura rom, senza riconoscere che il “pregiudizio” dovrebbe essere quello ravvisato specificatamente nell’interesse di ciascun minore. Quello che accade è che i minori rom verranno segnalati all’Autorità Giudiziaria in funzione del grado di tolleranza personale degli operatori sociali, che, come quella di molti cittadini, è molto bassa.
- L’altro aspetto riguarda l’applicabilità della norma giuridica italiana a un contesto culturale differente, un tema che in Italia resta poco approfondito. Al centro di quest’analisi vi è una discussione sulla definizione dei margini dell’applicabilità della norma giuridica a un minore il cui contesto famigliare potrebbe non riconoscere la stessa norma e le sue finalità. In funzione di quali criteri potremo definire l’abbandono di fronte a un minore che appartiene a un contesto culturale differente da quello nel quale è stata elaborata la norma giuridica? Alcuni magistrati portano riflessioni interessanti a questo proposito, affermando che di fronte al minore straniero occorre sempre considerare e decodificare il contesto culturale dal quale proviene, ma il tema resta ampiamente marginale nell’ambito della magistratura minorile. Il risultato è che pochi magistrati minorili riconoscono la necessità di decodificare il contesto culturale del minore e che in molti invece ritengono non opportuno riconoscerne la specificità dettata dall’appartenenza culturale. Questo è quanto emerge nell’ambito del lavoro di ricerca svolto.
Quale soluzione proporre? Frequentemente la cultura non-rom si presenta come “egemone”, più forte di quella dei romá, identificati come appartenenti a una minoranza culturale. Se davvero si riconosce come tale, la nostra cultura dovrebbe prendersi la responsabilità di assumere fino in fondo questo ruolo, creando quegli strumenti che potrebbero anche tutelare il minore rom e la sua famiglia. Questo vorrebbe dire disporre di quegli strumenti di conoscenza che si avvicinino il più possibile al contesto culturale del minore, con il risultato di mettere il minore in una condizione che lo veda tutelato da entrambe le parti: per la magistratura minorile e per la sua famiglia.
Dovremo infine smettere di pensare alle cultura rom come una cultura statica e immutabile, come se i minori fossero destinati alla povertà materiale e culturale dei loro genitori. Se molti romá oggi vivono nei “campi nomadi” è perché si tratta di una chiara scelta delle amministrazioni comunali di mantenere queste comunità in una condizione di grave precarietà sociale e civile. Se i minori rom oggi non sono tutelati e c’è un sistema giudiziario minorile che non li tutela la responsabilità è solo nostra.
La seconda indagine “Sottrazione di minori gagé” originariamente copriva il ventennio dal 1986 al 2005, ma per i fatti successivamente accaduti si è protratta fino al 2007. I casi sono stati individuati e analizzati partendo dall’archivio Ansa e arrivando alla consultazione dei fascicoli dei Tribunali, adottando, oltre a quella giuridica, più prospettive: etnografica, dell’antropologia giuridica ed etnometodologica.
Per dare un quadro del lavoro svolto, possiamo dire che la ricerca si è strutturata in tre fasi: individuazione nell’archivio Ansa dei fatti di nostro interesse; studio del corpus ricavato dall’archivio Ansa per individuare i casi; lavoro sui casi: consultazione dei fascicoli processuali, ricostruzione, comparazione. Quest’ultima fase – che partiva, appunto, dalle informazioni contenute nelle notizie Ansa – ha avuto la sua attività principale nel contatto con le Forze dell’ordine, Procure e Tribunali al fine di verificare se il fatto avesse avuto un prosieguo significativo in termini penali. In caso affermativo, si è cercato di ottenere i permessi per la visione dei fascicoli. Alcune volte, è stato possibile avere un colloquio con il PM e con gli avvocati; in altre, la distanza temporale ha complicato questi passaggi. Per molti è stato possibile anche raccogliere gli articoli apparsi sui giornali e anche su Internet.
Nella nostra analisi prendiamo in considerazione ventinove casi, oltre undici di sparizione di minori (dunque, 40 in tutto), sui quali è da subito opportuno indicare il risultato principale della ricerca, e cioè che non esiste nessun caso in cui sia avvenuta una sottrazione del bambino: nessun esito, infatti, corrisponde ad una sottrazione dell’infante effettivamente avvenuta, ma si è sempre di fronte ad un tentato rapimento, o meglio, ad un racconto di un tentato rapimento.
Alla confusione che generano i media al momento della denuncia del fatto, dando come provato e “vero” il tentato rapimento, se non vi è un arresto non corrisponde quasi mai la notizia dell’esito dell’azione delle Forze dell’ordine. Nei pochi casi in cui questo accade, la notizia non è per comunicare che i rom non c’entrano niente, ma è perché l’esito scioglie in sé altri eventi: truffe, fatti drammatici, situazioni che suscitano ilarità.
In maniera random si è cercato anche di verificare se per i casi in cui era stata sporta denuncia, ma in cui i presunti rapitori si erano dati alla fuga, le indagini avessero risolto la vicenda in qualche modo: si tratta di un ulteriore accertamento rispetto al fatto che se non c’è stata più nessuna notizia in merito questo ci può far dire che non si era poi svolto nessun arresto. D’altra parte - come dicevamo e come alcuni casi dimostrano - laddove le Forze dell’ordine tramite le proprie indagini verificano che è stato solo un equivoco, una percezione errata della situazione, la stampa ne dà poca o nessuna notizia.
La comparazione dei casi ci ha aperto a strade particolarmente significative, attraverso le quali si sono potuti individuare gli elementi cardine dei racconti dei tentati rapimenti, che sono pochi e si ripetono come un frame, un canovaccio concettuale con poche varianti: ad esempio, nella grande maggioranza, si tratta di ‘donne contro donne’ ossia è la madre ad accusare una donna rom di aver tentato di prendere il bambino; non ci sono testimoni del fatto, tranne i diretti interessati; gli eventi accadono spesso in luoghi affollati come mercati o vie commerciali; nessuno interviene in soccorso della madre; non di rado appare la paura che vi sia uno ‘scopo oscuro del rapimento’ per cui la presenza di alcuni mezzi e persone nelle vicinanze vengono interpretate dalle madri (o da altre figure) come complici della zingara (ma i controlli lo smentiscono regolarmente).
L’analisi comparativa dei casi, infine, ci porta a poter affermare che laddove vi è la presenza di un infante, l’avvicinamento di una persona rom è subito vissuto come un pericolo per il proprio figlio: lo stereotipo “gli zingari rubano i bambini” risulta essere molto più potente di qualsiasi altro. Non si ha paura, infatti, che sottraggano il portafogli o la borsa (secondo lo schema mentale “gli zingari rubano”), ma che portino via il bambino.
Dai ventinove, estrapoliamo i sei casi che hanno portato all’apertura del procedimento e dell’azione penale, che rappresentano il cuore del lavoro di ricerca e che nel testo vengono presentati e discussi uno ad uno in particolar modo attraverso i fascicoli processuali.
Si tratta di
- Desenzano del Garda (Brescia) 02/12/1996. Sentenza di colpevolezza [art. 56 c.p. (delitto tentato) art.605 c.p. (sequestro di persona)].
- Castelvolturno (Caserta) 18/01/1997. Sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste.
- Minturno (Latina) 30/08/1997. Archiviazione del caso.
- Roma 10/10/2001. [Sentenza di colpevolezza art. 56 c.p. (delitto tentato) art. 574 c.p. (sottrazione di persone incapaci)].
- Lecco 04/02/2005 (il procedimento penale è in corso – II grado).
- Firenze 25/10/2005 (il procedimento penale è in corso – I grado, il PM nell’ultima udienza del 17 ottobre 2008 ha chiesto l’assoluzione).
Lo sguardo critico proprio della disciplina antropologica fa emergere dalle carte e dalle aule del tribunale l’utilizzo delle categorie del senso comune da parte degli operatori del diritto come base attraverso cui adattare la categorizzazione prevista nei codici alle circostanze del caso e la costruzione della credibilità dei testimoni nella quale assume un forte peso la capacità retorica delle due parti, intesa anzitutto come coerenza interna del discorso quale testimonianza dell’accaduto. Il tutto retto anche da un ‘ragionevole’ assunto iniziale: la madre non avrebbe nessun motivo per accusare la zingara di un atto non compiuto, in pratica non avrebbe alcun senso che la madre si fosse inventata tutto, per cui quello che ella dice è di partenza da considerarsi in qualche modo “vero”.
Non dobbiamo scordarci che ci troviamo davanti a persone appartenenti a gruppi socialmente e giuridicamente deboli: non solo persone immigrate, ma soprattutto e in primo luogo rom (ma chiamati sempre nomadi) e nella maggior parte dei casi “sedicenti”. Addirittura nella sentenza di Brescia si legge che la pericolosità sociale della donna è “in una con la sua condizione di nomade”. Allo stesso modo per il caso di Roma, non ha nessun peso il fatto che il certificato dei carichi pendenti dell’imputata risulti negativo: la sua condizione di nomade sedicente basta – secondo il giudice - a renderla pericolosa e capace di commettere azioni criminose. Il fatto di essere definite nomadi, giustifica di per sé nei confronti delle imputate qualsiasi decisione a tutela della collettività.
Infine, per quanto riguarda episodi di sparizione di bambini (11 casi analizzati), nella maggioranza molto noti all’opinione pubblica, abbiamo ricostruito i vari momenti in cui i rom e sinti entravano tra i soggetti sospetti e gli esiti degli accertamenti che derivavo dall’attività investigativa (sempre negativi). La drammaticità delle vicende di queste sparizioni si rende ancora più acuta in quelle narrazioni di cui si conosce l’epilogo: l’opposizione fra ciò che è accaduto realmente a questi bambini e l’immaginario stereotipico del rapimento da parte dei rom emerge con una forza squassante. Questi bambini sono stati vittime di una violenza brutale tutta interna ai contesti dove vivevano: pedofili, conoscenti, parenti. Anche a partire da questo, il forte invito è quello di allargare il nostro sguardo, interrogarci e riflettere maggiormente su noi stessi (sempre che questo noi così netto esista...).
Le autrici della ricerca
Carlotta Saletti Salza, dottore di ricerca in Antropologia ottenuto presso la Facultat de Ciències Humanes i Socials – Departament d’Història, Geografia i Art – di Castellón de la Plana (Spagna). Svolge da svariati anni attività di ricerca presso Fondazioni e Univeristà. Ha condotto ricerca etnografica tra le comunità xoraxané a Torino e in Bosnia su tematiche relative all’educazione famigliare e scolastica e sulla rappresentazione della morte.
Sabrina Tosi Cambini, dottore di ricerca in Metodologie della ricerca etno-antropologica presso l’Università degli Studi di Siena, svolge da svariati anni attività di ricerca presso Fondazioni, Istituti e Università; è stata operatrice di strada e da tempo coordina progetti sperimentali di lavoro sociale. Attualmente è docente a contratto di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Firenze e di Antropologia sociale presso l’Università degli Studi di Verona. (10/11/2008-ITL/ITNET)
15 commenti:
grazie Hidden Side per la segnalazione.
prego ... è un testo estremamente importante.
Trovo le parole dette relartivamente alla questione adozione abbastanza gravi e "pericolose".
1° bisognerebbe anche dire a cosa vengono sottoposte le coppie che chiedono di adottare e quali parametri devono rispettare per poter avere un numero d'attesa nella lunga fila d'adozioni.
2° pare strano che il numero sembri così elevato, 200 bambini in 20 anni sono una media di 10 bambini all'anno da suddividere su 8 tribunali..direi che non è così improbabile che ci sia un caso all'anno in media visto che, ad esempio a Milano si parla di 120-150 bambini all'anno dati in adozione con la nazionale.
Dato che spesso si sente di minori rom trovati in situazioni delittuose recidivi(30-40 volte) non trovo così strano che ciò accada.
La ricerca sarebbe + corretta se fornisse anche una media delle età dei bambini sottratti all'autorità dei genitori, questo darebbe un'indice migliore del lavoro fatto dalle asistenti sociali.
Purtroppo si continua a dare la colpa alle amministazioni della situazione in cui versano i sinti e i rom dei vari campi.
Sarebbe interessante capire come mai questo sia l'unico popolo che in decenni di storia non è stato in grado di essere padrone del proprio destino...ma tanto la risposta sarà la colpa della società...è la risposta semplice che si fornisce anche per giustificare i pluriomicidi o i folli..un'ottima soluzione per non vedere le vere responsabilità.
Questi estremisti della Conferenza Episcopale Italiana!
bella rispost, esauriente e intelligente.
xpisp .... sei pure in malafede visto che hai messo lo stesso post anche sul mio blog e li ti ho risposto più che ampiamente.
Quindi questo è il tuo nuovo nick?
Io ti conoscevo come noblogo....
forse in malafede è chi ha molteplici nomi!
Precedente post eliminato per togliere una parolaccia che mi è venuta dal profondo del cuore (e che xpisp merita tutta), ma SucarDrom non merita flame.
Dicevo:
Questo nick rimanda al blog che rimanda al mio nome e cognome (su FaceBook).
Il nick "Hidden Side" e lo stesso che uso sul blog; ho un altro blog che si chiama direttamente Hidden Side e la mia identità fisica ed online è per definizione tutta dichiarata su tutte le piattaforme.
Sto usando questa firma su Sucar Drom perché blogger da qualche giorno fa difficoltà a riconoscere la firma LiveJournal.
La malafede di questa ulteriore risposta combacia perfettamente con il tuo modo da troll di cui hai lasciato ampia traccia su Sucar Drom.
Con questo hai chiuso con me, non avrai più spazio su No(blogo non ti risponderò più su SucarDrom.
Ecco come si comporta chi predica l'apertura mentale, l'accoglienza, la cortesia, ecc.
Scusa se non verifico a chi sto rispondendo, ho letto il tuo nome noblogo e poi mi trovo a parlare con Hidden.
scusa ma per me sono due identità differenti...colpa mia che non verifico prima se devo o meno parlare con una persona?
Invece di malafede, mio caro permalosetto, si tratta proprio di correttezza, non sapendo che parlavo con la medesima persona(estradatemi per questa grave colpa) ho ritenuto l'argomento interessante e visto che lo trattavi pure tu ho riportato la medesima risposta.
Tu non mi hai rimandato allo spazio dove usi l'altro nome e io colpevolmente non ho verificato questa cosa.
Incazzati pure ma così dimostri solo che non sei diverso da chi critichi tanto e che le parole che avevi scritto sul tuo spazio erano false!
Saluti cari a tutte le tue molteplici personalità.
ps
io ti ho firmato con entrambi i miei nomi....giusto per non dare aditoa confusioni....
pps
tutto sto casino perchè non ho capito che parlavo con la medesima persona??? alla faccia dell'accoglienza e di tutti i paroloni con cui ci si riempie la bocca!!!!
Visto che sul suo spazio No(blogo mi ha chiesto le scuse riporto in copia qui quello che già gli ho scritto da lui...almeno magari non mi si accuserà di fantasie assurde.
ti ribadisco che la malafede non entra per nulla in tutto sto pandemonio che hai tirato fuori per nulla.
Mi scuso per non aver capito che stavo parlando con la medesima persona.
Mi scuso per non fare approfondite indagini per scoprire con chi parlo.
Mi trovo abbastanza perplesso di fronte alle tue affermazioni, non hai avuto il minimo dubbio sulla mia malafede, è perchè non sono rom o perchè ho simpatie su alcuni temi della lega?
Non è che la tua reazione è dettata da pregiudizi?
Prova a pensare se proprio così impensabile che uno non si accorga di un unico utente che usa due nick differenti.
in ogni caso...fai come vuoi, offenditi pure, io ho la coscienza pulita.....tu forse un pizzico di pregiudizio o forse più probabilmente una giornata no!
xpisp, Stefano
A scusa l'ignoranza...uno che legge la domanda qui...come fa a sapere:
1° che te l'ho rivolta anche nel tuo spazio?
2° Che mi hai risposto in quello spazio e non qui?
infine...fare una semplice domanda e risolvere senza insultare nessuno era tanto difficile?
Mi spiace per l'accaduto e mi spiace anche che da una parte mi dai un profilo e dall'altra ne dai un altro.
1°) Sei tu che hai l'onere, se fai cross-posting, di chiarirlo a chi ti legge e sopra tutto a chi ha la gentilezza di risponderti (è una norma elementare di net-etiquette)
2°) Se scrivi su blog altrui hai il dovere di informarti su chi stai contattando, stai entrando in casa altrui, spetta a te.
3°) quello che scrivo qui ha sempre una firma in azzurro, con un link che spiega ampiamente chi sono, basta avere la cortesia di seguire i link e di me sai anche che numero di scarpe porto!
Qualche click non sono pprofondite indagini.
Se sei pigro è una tua responsabilità;
Se poi accusi altri, che si espongono con il proprio nome e cognome(*), di mascherare l'identità, meriti ben altro di quello che ti ho scritto.
Stai facendo un'accusa che è al limite della diffamazione.
Comunque scuse accettate.
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(*) per tua conoscenza, tenere un blog come il mio implica spesso e volentieri: insulti, minacce, tracciamenti.
Non è sempre facilissimo scrivere quello che si pensa, firmando con nome e cognome, quando a minacciarti sono sigle eversive.
Premesso che è venuto fuori un polverone per un nonnulla, almeno secondo me, mi permetto di risponderti.
1°) non sapendo che stavo parlando con la medesima persona .....mettevo la risposta di un altro ???
Se lo avessi saputo il problema non ci sarebbe stato...non credi?
Le scuse le ho riportate anche qui perchè mi sembrava doveroso.
2°) Questo dovere mi sfugge, a me di come ti chiami, senza offesa, poco importa, mi piacciono le tue idee, spesso non le condivido ma proprio per questo quando posso e ne sento il bisogno ti scrivo.
Il sapere chi sei...non mi cambia nulla.
Sul doppio nick, sono scelte, io continuo ad usare un nick insulso perchè voglio che si sappia che il rompiballe sono sempre io e non sono aumentati.
Spesso, specialmente nel confronto con un certo personaggio che da un pò è sparito, è uscito il mio nome e cognome, ma dubito che questo dia + o - valore ai miei pensieri, almeno fintanto che discuto, m'incazzo ma non offendo.
comunque facendo un solo click...non arrivo all'altro blog..quando mi hai fatto notare la cosa ho visto...ma oramai la frittata era fatta.
Va beh .. testone ... piantiamola li.
(comunque non è un doppio nick, il blog si chiama No(b)logo, ed anche sul blog il nick è Hidden Side, sta scritto sotto profilo dove c'è l'icona con lo scacco, controlla.).
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