Nonostante gli anni, la mercedes beige sorpassa con disinvoltura i trattori e gli altri veicoli che affollano la strada a due corsie che attraversa il Kosovo da nord a sud. La destinazione è Mitrovica, città che marca il confine tra il nuovo Kosovo indipendente (e albanese) e quello che si sente ancora provincia della Serbia. Per la precisione la linea di confine tra questi due mondi divide la città stessa in due, con il governo kosovaro che controlla la zona sud e la Serbia che mantiene il controllo di quella a nord del fiume Ibar. A fare da collegamento tra i due mondi un ponte sotto la vigilanza continua del contingente francese della KFOR. In realtà di ponti ce ne sono altri due, ma di questi si parla molto meno.
Mitrovica è il luogo dove in maniera più evidente si palesa la coesistenza tra due strutture statali parallele, che la dichiarazione unilaterale di indipendenza dello scorso anno ha ulteriormente allontanato. La Serbia, che pure riconosceva il mandato dell’UNMIK in quanto sancito da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, si rifiuta di riconoscere la legittimità del governo kosovaro e della missione UE in Kosovo e ha nei mesi passati rinforzato la sua presenza.
I due sistemi intervengono in ogni aspetto della vita degli abitanti di questa città: dai tribunali alle scuole, dall’assistenza sanitaria ai documenti personali, dai sussidi economici alle patenti di guida e alle targhe delle auto. Per quanto riguarda le auto, nella parte nord si vedono le targhe con la sigla KM (Kosovska Mitrovica) emesse dalle autorità serbe, a sud dominano invece quelle con la sigla KS adottata dal nuovo governo. Il problema sorge per gli autusti dei veicoli in transito da una parte all’altra (e ce ne sono molti!) che devono fermarsi e togliere la targa ogni qualvolta attraversano il fiume Ibar.
Per l’UNMIK, il controllo serbo sul nord di Mitrovica ha sempre rappresentato uno smacco difficile da digerire, che si rifletteva nella stigmatizzazione di quel pezzo di città come ‘zona grigia’, a cui venivano associati una serie di connotati negativi, spesso ben lontani dalla realtà riscontrabile sul terreno. Nel 2002, Steiner, l’allora rappresentante speciale in Kosovo del segretario generale dell’Onu, dichiarava:
«Se si getta uno sguardo su Mitrovica nord oggi, che cosa si osserva? Strade grigie. Giovani senza prospettive. Macchine parcheggiate in doppia e tripla fila. Disordine. Paura. Una legale “zona grigia”. Nessun investimento. Niente lavoro. Nessun futuro. È tempo di fare qualcosa. Se le cose vengono lasciate così come sono, scivoleranno ancora più verso il fondo. [...] Lasciare le cose così come sono significa perdurare nell’assenza di leggi, nell’insicurezza, nella paura e nella marginalizzazione politica. Significa restare in una “zona grigia”».
Come nota Picker, in un bel intervento apparso su Conflitti Globali, ‘la differenza che viene prodotta discorsivamente tra un modello occidentale di città e la situazione di Mitrovica trova la sua origine in un immaginario geopolitico e geoculturale più ampio, che assume la forma di: Europa/Balcani = modernità/premodernità= sviluppo/non sviluppo’.
Mentre la situazione di Mitrovica, per la prossimità del confine con la Serbia, è in qualche modo estrema rispetto ad altre municipalità con una forte presenza serba - va ricordato il dato spesso sottovalutato che solo circa un terzo dei Kosovari di etnia serba vive nelle municipalità del nord - è comunque fondamentale per capire la complessità del rebus kosovaro anche ora, a un anno dalla dichiarazione di indipendenza.
Dove vivevano i Rom. È in tale rebus vanno poi inserite le minoranze rom, askhaljia e egiziane (RAE). La loro storia, il loro presente e la loro sorte sono strettamente legate a quanto accade nel resto del Kosovo.
Al comune di Mitrovica sud parlo con la funzionaria rom che ha il compito di fungere da collegamento tra la comunità e le istituzioni locali che “si sente impotente di fronte alle richieste, talvolta disperate, che le arrivano dai rom” e per l’assenza di risorse e volontà politica da parte delle istituzioni che, dice la funzionaria, “spesso la fanno sentire come un pupazzo” messo lì per accontentare la comunità internazionale ma senza alcun potere reale.
Nel suo ufficio, uno stanzino senza finestre con un computer che non viene riparato da più di un anno e dove a stento ci si muove, ci sono affisse due mappe del quartiere rom, una di prima della guerra del 1999 e della tabula rasa fatta dagli albanesi di ritorno a Mitrovica dopo la fine dei bombardamenti della NATO, e l’altra con evidenziate le aree dove dovrebbe risorgere, secondo i piani concordati dal comune con le agenzie internazionali, la mahalla dei rom. Il quartiere che una volta si estendeva su un territorio di circa 20 ettari lungo la riva sud del fiume Ibar ora si è ridotto a poco meno di due ettari. La distanza tra quello che c’era prima e il presente diventa evidente mentre passeggiamo verso le nuove abitazioni assegnate da pochi mesi ad alcune famiglie rom che hanno accettato di fare da apripista di un controesodo che forse non avverrà mai, nonostante sia fortemente auspicato (e incentivato) dagli strateghi del nuovo Kosovo pacificato e, volente o nolente, multietnico. Quello che colpisce attraversando a piedi l’area è l’assenza di vita, l’assenza di musica, gli ampi spazi vuoti dove è stata rimossa ogni traccia di quello che c’era. di Nando Sigona, continua a leggere...
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