Zlatan Ibrahimovic ti guarda con quella faccia di chi non deve niente a nessuno. La faccia di chi si è sudato tutto quello che ha ottenuto, costruendo con il sacrificio quel poco che madre natura gli ha negato. Dimenticate gli stereotipi del calciatore di successo. Tra i colleghi che sfoggiano addominali da urlo sulle spiagge modaiole della Costa Smeralda non lo troverete mai. Di lasciarli in uno spogliatoio a fine stagione e ritrovarseli due ombrelloni più in là, non ne ha nessuna voglia. Il suo privato comincia al 90', e nessuna intrusione è autorizzata "fuori orario".
Le sue vacanze sono un ritorno alle origini, in Svezia, dove ha fatto costruire una villa da tre milioni di euro, per non perdere d'occhio il suo passato e godersi il sapore della rivincita. In quello stesso quartiere, in quella stessa città, lo "zingaro" pensa anche all'infanzia trascorsa su un campo di cemento, che oggi, per i bambini di Malmoe, ha trasformato in un vero campo da calcio. Una beneficenza meno ostentata rispetto ad iniziative più spettacolari, ma, che piaccia o no, Ibra è così. Spigoloso, nei tratti, nel dna, nell'approccio col prossimo.
Padre bosniaco, madre croata, cresce tra gli immigrati di Rosengard, un sobborgo di Malmoe, dove i genitori cercano miglior fortuna, senza sapere che quel sogno si avvererà nel 1981, con la nascita di Zlatan. Lo scopriranno negli anni a venire, quando, tra l'incredulità generale, quel ragazzone acquistato dalla squadra della sua città, svelerà tutto il talento apparentemente incompatibile con quel fisico dinoccolato che solitamente si identifica con l'anti calcio.
Si fa largo a spallate, Ibra, nel vero senso della parola. Da ragazzino è già un gigante, e giocare a pallone con lui significa finire sotto, almeno sul piano fisico. Il suo primo allenatore vero, al Malmoe, gli preferisce spesso un compagno di squadra, tanto da arrivare sul punto di convincerlo a scegliere il basket, più vicino alle sue caratteristiche fisiche.
Un retaggio che rimane sotto pelle, nonostante di acqua, sotto i ponti, ne sia passata tanta. Ancora oggi, tra gli dei del pallone, Ibra mente sull'altezza. Alto quasi due metri, i siti ufficiali lo collocano tra il metro e 92 e il metro e 96. Nel 2001 la svolta, con la cessione all'Ajax di Beenhakker per quasi nove milioni di euro, l'acquisto più oneroso del club olandese.
«Io sono Zlatan, e voi chi cazzo siete?». Si presenta così, senza alcun timore reverenziale, e con un ego e una personalità prepotenti, in uno degli spogliatoi più sacri della storia del calcio. Ad Amsterdam vince due campionati, una coppa nazionale e una supercoppa olandese. Cresce la consapevolezza dei propri mezzi tecnici. La pratica delle arti marziali, ai massimi livelli, perfeziona la sua coordinazione (da ricordare, in maglia nerazzurra, il colpo di taekwondo che ha gelato il Bologna), unico punto debole individuato agli albori della sua carriera. Il miracolo arriva quando il giocatore potenzialmente più forte del mondo incontra sul suo cammino Fabio Capello, che il talento puro lo annusa a distanza come un cane da tartufo.
È il 2004 quando Ibra approda a Torino, con potenzialità ancora parzialmente inespresse. Allenamenti supplementari per lui, per esercitarsi al tiro di destro e di sinistro, con una promessa fatta davanti a una videocassetta di Van Basten: «Diventerai più forte di lui», diceva Capello. Ai posteri l'ardua sentenza. Decisivo già al suo primo anno in bianconero, e protagonista dello scudetto revocato in seguito allo scandalo di Calciopoli. Meno brillante l'anno successivo. Poi l'addio, in seguito alla retrocessione dei bianconeri in serie B.
Non è, e non sarà mai una bandiera. Non fa neppure finta di volerlo essere. È la quinta essenza del professionista, calcolatore, consapevole di dover sfruttare i suoi anni migliori, oculato e accudito nelle scelte professionali da un procuratore di ghiaccio, Mino Raiola e da una moglie affascinante quanto tosta. Ex manager con un fisico da copertina, dieci anni più grande di lui, e secondo i ben informati con diritto di veto su qualsiasi scelta di vita e lavoro.
L'arrivo di Ibra in nerazzurro riporta l'Inter agli antichi fasti. Si vince, ma si vince in Italia. Non gli basta, nonostante lui stesso sia decisamente meno convincente sul palcoscenico europeo, a dispetto di una resa record in campionato che gli ha consentito alla fine dell'ultima stagione, di laurearsi capocannoniere. Ha finito la pazienza. Insegue il sogno europeo, con il sacro fuoco nelle vene che pulsa come quando spinge sull'acceleratore delle sue potentissime auto. L'augurio che possiamo fargli è che, a differenza di quanto accade nella più classica delle leggi di Murphy, l'altra coda non vada sempre più veloce. di Lara Vecchio
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