Andavano a scuola con i loro figli. Ma hanno rischiato di abbandonarla dopo gli sgomberi. Siamo entrati nelle case di mamme e maestre che li hanno ospitati e adottati.
«Le ruspe abbattono le baracche, ma non abbattono le mamme e le maestre», dice Flaviana Robbiati, insegnante della scuola elementare "Bruno Munari" di Milano. Nella città dei duecento e passa sgomberi dei rom, ci sono famiglie sgombre dai pregiudizi. Famiglie milanesi che accolgono famiglie rom. Nella propria casa. Le mamme e le maestre di via Rubattino sono diventate un simbolo anche se sono gente normale, normalissima: i figli, la scuola, la spesa, la casa, il lavoro. E un sussulto di dignità. A Milano, come è noto, il problema dei “campi nomadi” viene sbrigato come fanno certe massaie con la polvere del salotto: scuotendo lo straccio fuori dalla finestra. Gli sgomberi sono tutti uguali: gli agenti e i vigili in assetto antisommossa, le ruspe che passano sui tetti di eternit, sulle bombole del gas, sulle stufette, sui giocattoli e gli zainetti dei bambini che vanno a scuola, l’esultanza del vicesindaco Riccardo De Corato e della Lega Nord per aver «restituito pezzi di territorio alla città dell’Expo 2015».
I Rom radunano le loro poche cose, pigiano gli stracci dentro sacchi di plastica neri, le caricano sui carrelli del supermercato o su qualche macchina per poi scomparire nel nulla, o al massimo finire nel dormitorio di viale Ortles (ma solo le madri e i bambini piccoli, perché per i padri, i ragazzi, i giovani, gli anziani, non c’è posto). I nuclei che non si vogliono separare si rifugiano sotto qualche altro cavalcavia (in via Bacula, in via Bovisasca, in viale Forlanini, a Corsico, a Chiaravalle) per poi venir sgomberati nuovamente in un gioco dell’oca molto utile ai fini elettoralistici (le elezioni per il rinnovo della giunta del Pirellone sono alle porte). E nessuno che abbia nulla da dire, non un consigliere comunale, non un rappresentante della società civile, a parte i pochi coraggiosi delle associazioni di volontariato (come il Naga), della Caritas, delle parrocchie.
«Il giorno di Segrate, il 16 febbraio scorso, ci sono stati nuclei familiari che sono stati sgomberati cinque o sei volte nello stesso giorno, a distanza di poche ore», dice Elisa Giunipero, della Sant’Egidio. «Ogni sgombero costa almeno 30 mila euro. Quante strutture di accoglienza si potrebbero creare con quei soldi?», aggiunge Stefano Pasta, anch’egli volontario della comunità fondata da Andrea Riccardi. E i bambini, che venivano accompagnati in classe tutti i giorni grazie a un progetto scolastico della Sant’Egidio, sono costretti a cambiare istituto, quando va bene, oppure finiscono in strada a chiedere l’elemosina.
Una fragile rete di protezione. Dei 36 bambini che andavano a scuola ne sono rimasti una quindicina: «Eppure non davamo fastidio a nessuno», spiega George Paun, padre di Cristina e Florina. George ha alle spalle una lunga serie di sgomberi (Bovisa, Rubattino, Corsico, Segrate). Ma le madri e le maestre del circolo didattico di via Pini, dopo lo sgombero di via Rubattino (il 19 novembre), hanno cominciato a reagire, per la prima volta in tutta Italia, formando una fragile rete di protezione per quelli che sono rimasti.
Nei giorni degli sgomberi, in via Rubattino come a Segrate (l’ultimo in ordine di tempo) li hanno ospitati nelle loro case per un bagno caldo, una cena e un letto per la notte. «Avevano tanta paura negli occhi, anche se di giornate come quella ne avevano viste più di una», dice Assunta Vincenti. Da allora li vanno a prendere nei luoghi dove si sono rifugiati, ogni mattina, per caricarli in macchina e portarli a scuola. Di pomeriggio fanno i compiti coi loro figli.
«Il dramma ha rafforzato i rapporti, sono gli amici dei nostri figli e dunque li trattiamo come figli», spiega Francesca Amendola, un’altra delle madri che si prodiga per quell’infanzia negata. «Ci conosciamo tra le famiglie e devo dire che sono persone splendide, solo più sfortunate di noi. Se l’integrazione non parte dalla dignità umana e dalla scuola allora vuol dire che non c’è speranza», aggiunge Alessandra Bufalini, madre di Andrea. Le parrocchie, discretamente, offrono un alloggio; uomini e donne di buona volontà offrono un pasto, aiutano a fare i compiti, vanno a fare la spesa, portano le madri e i bambini dal medico.
Giovedì 25 febbraio mamme e maestre hanno organizzato una merenda in onore dei bimbi rom e soprattutto per ricordare quegli alunni invisibili scomparsi nel nulla. Tra i banchetti delle torte e della Nutella hanno appeso delle sagome di scolaro per ricordare i loro compagni scomparsi nel nulla. A casa di Francesca oggi c’è Marius, assistito anche da Assunta, mamma di Dario.
«A Natale si era ustionato mani e piedi», ricorda. «Lo abbiamo accompagnato a fare le medicazioni presso le Acli. La sera dello sgombero è venuto da me a dormire. Sua sorella Cristina è ospite dalla sua maestra. Il giorno dello sgombero di Segrate si aggirava smarrito per il campo. L’ho portato a casa mia a fare colazione, a lavarsi e poi l’ho accompagnato a scuola. Noi gli facciamo sentire la nostra solidarietà, ma questi sentimenti non gli daranno da mangiare a lungo. Le famiglie vorrebbero lavorare e affittare piccoli appartamenti in zona per poter continuare a mandare a scuola i figli. Non ci sono parole per descrivere la nostra fatica quotidiana in questi lunghi mesi. Per procurare materassi, fornelli, bombole del gas, giocattoli a Natale, pannolini, abiti, scarpe, viveri, portarli a fare le docce, pagare le multe per accattonaggio».
In questa opera silenziosa ci sono anche dei parroci. «C’è n’è uno che ospita due famiglie nella canonica», aggiunge, ma non dice il nome per evitare ritorsioni. A questo siamo arrivati a Milano. di Francesco Anfossi
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