
Annunciato dalla Conferenza di Firenze sull'immigrazione, ora è atteso un piano governativo per contrastare le ondate di reati che destano allarme sociale, rapine, furti, scippi, risse, insediamenti abusivi e aggressivi dell'immigrazione clandestina.
L'insicurezza collettiva, di fatto, non è imputabile solo alla criminalità nazionale, mafia, camorra, sacche d'illegalità urbane o suburbane. Anzi, oltre alla criminalità nazionale, non è più sostenibile quella d'importazione. Secondo un rapporto del Viminale a Montecitorio, 36,5 su cento reati commessi nel 2006 sarebbero imputabili a residenti stranieri, 19,4 per cento immigrati clandestini.
Ma ora si discute in particolare sui rom, che non sono più immigrati clandestini, bensì cittadini comunitari dopo l'ingresso della Romania nell'Ue. Non si possono respingere, ma solo espellere all'occasione per motivi di ordine pubblico.
«Dalla Romania — come ha segnalato però il ministro Amato — è in corso un vero e proprio esodo». In Italia, sarebbero già moltitudini e arrivano ancora. Alle origini, furono allevatori di cavalli nelle steppe eurasiatiche, poi giostrai, calderai ambulanti, o anche violinisti di strada. Le loro doti artistiche, passionali e spontanee, furono apprezzate fino a costituire un vero e proprio genere, la celebre commedia tziganka, spettacolo tradizionale al teatro «Malyj» di Mosca. Eppure, non poterono né vollero integrarsi mai nelle nazioni che li ospitavano.
Montanelli, forse il solo cronista che per una volta fu ammesso a viaggiare nei loro carrozzoni tirati dai cavalli, ricordava sul Corriere: «... Nel '39 mi trovavo in Albania, dove conobbi un ebreo greco del Cairo che faceva l'impresario di violinisti tzigani andando a scoprire talenti nelle loro randage tribù. Costui, facendomi passare per il suo assistente, ottenne un posto anche per me in una carovana da Còrizza fino a Salonicco attraverso Macedonia e Tessaglia... In quel viaggio imparai sulla vita degli zingari molte cose, ma soprattutto una. L'inutilità di spiegargli il motivo per il quale eravamo inseguiti spesso a fucilate da contadini e pastori, che poi era uno solo. Rubavano tutto quello che trovavano per le strade, agnelli, galline, farina, attrezzi... Ma non si rendevano conto di ciò che facevano perché il concetto di proprietà non era mai entrato nei loro cervelli...».
Ora, più di mezzo secolo dopo, saranno un po' diversi. Eppure Achille Serra, già prefetto di Roma, qualche mese fa dichiarava: «Visito personalmente i loro campi... Le donne non si vedono, forse perché sono sulla metro a scippare borsette, gli uomini dormono perché forse hanno lavorato di notte svaligiando abitazioni». Precisava, s'intende, di non voler generalizzare, ma concludeva insistendo sul pericolo che verso quegli stranieri l'insofferenza della gente raggiunga «forme di razzismo alle quali guardo con terrore» (Repubblica, 19 maggio).
Già intorno ai campi nomadi si ripetono aspri conflitti. Da una parte, ruberie di automezzi, ciclomotori, benzina, denaro dei parcometri, persino panni stesi. Dall'altra parte, incursioni di rappresaglia imputabili anche alla primaria xenofobia razzista dell'inconsulta violenza. Il piano governativo in discussione, che include fra le misure d'emergenza più poteri a prefetti e sindaci, ripropone un quesito al quale non è facile rispondere. Fino a che punto, in Italia come altrove, si può davvero integrare oltreché ospitare qualsiasi flusso d'immigrazione?
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