L'agenzia russa Ria Novosti informava alcuni giorni or sono che, secondo la televisione kosovara “le varianti della bandiera e lo stemma” del Kosovo indipendente erano ormai pronte.
Ciò significa che un gruppo di lavoro diretto da Fadil Hysaj, consigliere del governo di Prishtina, aveva scelto tre disegni di ogni simbolo nazionale fra quelli che erano stati presentati al concorso convocato ad hoc (niente a che vedere, quindi, con la vecchia tradizione vessillologica). Per seguire il filo della scelta dei simboli della nuova repubblica kosovara dobbiamo risalire a un anno fa, quando la Minuk (Missione per l'amministrazione ad interim delle Nazioni Unite in Kosovo) aveva determinato “ufficialmente” quali sarebbero le etnie riconosciute nel territorio kosovaro: albanesi, serbi, bosniaci, rom, ahkalli (rom albanizzati), egiziani e turchi. Fin qui, tutto chiaro. Ma il punto 7.1 della proposta che Martti Ahtisaari, inviato speciale dell'Onu, aveva presentato un ano fa alle autorità locali stipula che “il Kosovo avrà simboli nazionali propri, e cioè una bandiera, uno stemma e un inno che rifletteranno il suo carattere multietnico”.
Bisogna fare una parentesi per dire che questo “carattere multietnico” del Kosovo è soltanto una realtà virtuale acconciata di recente dalle istituzioni internazionali perché le comunità locali “hanno saputo vivere [per secoli] in buon accordo in questo territorio [e] le loro relazioni non hanno mai smesso di evolversi e di ridefinirsi a seconda delle varie logiche d'interesse, di conflitto o di cooperazione” (cfr. Le Monde diplomatique / Il Manifesto, marzo 2007. La proposta Ahtisaari quindi teneva conto anche delle minoranze, cosa da gradire assai ma che, in fondo, complicava la faccenda.
Tornando alle premesse di questa proposta, il noto giornalista e politologo albanokosovaro Jeton Musliu si domandava l'indomani (cioè il 3 febbraio 2007) nel giornale di Prishtina Gazeta Express (vedete la traduzione in francese de Le Courrier des Balkans: http://balkans.courriers.info/article7654.html) in che modo si potrebbero rappresentare graficamente nella bandiera e lo stemma, per dire, l'aquila bicefala nera degli albanesi, la ruota che gira su fondo bicolore azzurro e verde dei rom, le quattro esse che identificano i serbi e l'aquila bianca con una sola testa degli ahkalli; e ciò per non parlare delle altre minoranze.
Il problema però non è quello. L'amministrazione internazionale di un territorio senza un vero e proprio Stato (la famosa proposta Ahtisaari non accennava in nessun momento la possibilità dell'indipendenza, perché sarebbe contraria alla Carta dell'Onu, e lo è tuttora) ha favorito, e senz'altro favorirà ancora, sia la Nato (leggete Stati Uniti) che l'Ue. Sta di fatto che la Repubblica del Kosovo, riconosciuta soltanto da alcuni Stati, rimarrà sottomessa a interessi internazionali più alti, allo scopo, soprattutto, di controllare le “rotte energetiche” e non solo. Se guardate una carta geografica vi renderete conto della curiosa centralità del Kosovo fra gli “alleati e amici”, da un lato (a Occidente, è chiaro) e i punti caldi delle regioni prossime al Mediterraneo orientale, e tutto quanto a pochissime ore di volo dalla grande base militare che negli ultimi anni è stata approntata, senza fare alcun rumore in mezzo al placido paesaggio kosovaro.
Maria Djurdjevich ha appena pubblicato (“Guantánamo en Kosovo: los secretos de Camp Bondsteel”, nel Butlletí Informatiu de la Fundació Món-3, Barcellona, n. 114, febbraio 2008 http://mon-3.org/pdf/boletin) un'informazione interessantissima proprio su questo Camp Bondsteel, “la maggior base militare degli Stati Uniti fuori dalle proprie frontiere dalla guerra del Vietnam”. Sull'esistenza di questa base se ne sa pochissimo: il suo nome è apparso fugacemente solo in certe notizie riguardanti le carceri segrete della Cia nel Kosovo o l'impunità di cui godono i militari che operano con le mafie in quella “terra di nessuno”. Invece, secondo sempre M. Djurdjevich, la base funzionerebbe ormai pienamente: “È una base gigantesca, al sud di Prishtina, che iniziò a costruirsi in giugno del 1999, cioè appena dopo i bombardamenti della Jugoslavia, quando le forze armate degli Stati Uniti si appropriarono di 400.000 ettari di proprietà privata. […] La base militare Bondsteel è vicina ai luoghi per i quali passerà il futuro oleodotto transbalcanico (Ambo) e altre vie energetiche costruite dalla compagnia petrolifera Halliburton Oil e la filiale Brown & Root Services […], la cui fortuna è creciuta in modo vertiginoso dal 2001 grazie all'intervenzionismo americano all'estero e alla creazione di “zone grigie” per il commercio criminale (Kosovo, Irak, Afganistan): basi militari, traffico d'armi e petrolio…, un quadro sempre accompagnato da guerre interetniche”, precisa la Djurdjevich.
Intanto alcune proposte serie per la bandiera nazionale kosovara sembrano ormai dimenticate. Fra esse quella che aveva fatto l'antico leader moderato Ibrahim Rugova (morto nel gennaio 2006). Ma neanche le minoranze sono riuscite, dopo tutto, a imporre i loro simboli. Un anno fa Zylfi Merxha, presidente del Partito Rom del Kosovo, diceva: “faremo come gli altri, e se le minoranze più forti saranno rappresentate nella bandiera, noi richiederemo lo stesso diritto”. E come se nulla fosse, indifferente al dibattito, l'Accademia delle Scienze e le Arti del Kosovo aveva proposto una soluzione che diceva “neutrale” cioè quella meno compromettente, come se la proposta Ahtisaari non ci fosse mai stata: “la bandiera deve raffigurare soltanto i due colori che rappresentano in Kosovo, cioè il rosso e il nero, e basta” affermava l'accademico Besim Boksi. Anche il congressista americano Joseph DioGuardi, di origini albanesi, si era manifestato sull'argomento e aveva fatto la propria proposta.
Bisogna dire, però, che nelle fotografie e i filmati che abbiamo visto di recente sui raduni e le manifestazioni popolari a Prishtina le sole bandiera che ondulavano profusamente erano quelle dell'Albania e degli Stati Uniti, e alcune - poche - dell'Ue. Il gruppo di lavoro che si affretta alla scelta dei simboli nazionali del nuovo Stato deciderà quello che vorrà, ma sembra che i kosovari abbiano abbastanza chiaro quali saranno i loro veri padroni. di Albert Làzaro-Tinaud
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