Fra tutti i luoghi di partecipazione, la scuola riveste certamente un ruolo centrale in quanto spazio condiviso tra bambini/studenti e le loro famiglie, un ruolo che la scuola però deve ancora scoprire appieno sia incentivando la partecipazione diretta dei genitori negli ambiti previsti che favorendo il reale ascolto di tutte le culture presenti sul territorio.
Il contesto multiculturale della classe può diventare un laboratorio in cui si produce ricchezza, utilizzando materie prime preziose come le diversità, solo se ognuna delle identità etnico-culturali viene conosciuta e rappresentata.
Al contrario se la sopravvivenza culturale avviene soltanto all’interno del proprio gruppo etnico, diventa ghettizzazione, destinata ad estinguersi con il passare delle generazioni.
Infatti l'identità culturale non si mantiene solo distanziandosi o rifiutando pregiudizialmente l'altro diverso da me e/o trovando modelli di identificazione solo con il gruppo di appartenenza, ma nasce invece attraverso le differenti esperienze e proprio grazie al confronto con ciò che è diverso.
Come concordano ormai tutti gli studiosi, sembrerebbe dunque che l’identità non possa essere qualcosa di immutabile, quanto un processo in divenire risultante dall’interazione, dalla negoziazione e dall’accordo fra i soggetti in relazione .
Si evince l’importanza dell’alterità come passaggio obbligato attraverso cui il confronto e l’esperienza con l’altro diverso da me, diventa condizione indispensabile per la consapevolezza del sé e della propria autonomia.
Sembrerebbe che per essere riconosciuti dagli altri sia necessario passare dapprima attraverso varie identificazioni e che poi sia altrettanto necessario abbandonare queste identificazioni per essere o diventare se stessi.
E’ ormai consuetudine, parlare di Rom e Sinti , facendo distinzioni tra le comunità Rom e le comunità Sinte, tra i gruppi Sinti e Rom italiani e quelli non italiani, poi ancora evidenziando ulteriori suddivisioni che identificano i gruppi specifici e così via….
Spesso si fa riferimento alla cultura e all’identità, mantenendo una fissità che non ci fa cogliere invece i diversi livelli non solo dei gruppi, ma dei singoli individui con il loro vissuto, la loro esperienza ed il loro percorso.
Si corre il rischio di definire e riconoscere come Rom e Sinti esclusivamente coloro che sono saldamente attaccati al loro contesto etnico-culturale, coloro che si sentono sicuri solamente all’interno del loro gruppo di appartenenza, escludendone altri che invece seguono percorsi diversi, a volte con estremo sacrificio e difficoltà.
“ Quelli, non sono più Rom!” si sente dire, a volte solo per il fatto che si sono modificati stili di vita relativi ad aspetti esteriori, quali l’abbigliamento, l’abitazione… a volte per l’apertura e la collaborazione verso estranei non riconducibili al loro gruppo. Questa visione parziale non risponde però, a mio parere, alla realtà.
Non possiamo dimenticare che la presenza in Italia dei Sinti e dei Rom risale al 1400 e che l’attuale popolazione è costituita sia da generazioni con esperienze di contatto molteplici e diversificate e sia da gruppi di recente immigrazione, ognuno dei quali con un percorso di discriminazione, povertà ed emarginazione.
Se in passato la chiusura difensiva è stata la condizione basilare per la conservazione dell’identità culturale e linguistica dei Rom e Sinti, oggi, mantenere questa prassi porterebbe, a mio giudizio, ad una lenta e progressiva estinzione di quella cultura e di quella lingua a cui ci si appella per affermarne con orgoglio l’appartenenza.
Non è più possibile ignorare e sottovalutare il cambiamento degli stili di vita delle stesse famiglie Rom e Sinte, né rimanere indifferenti rispetto ai bisogni di quei Rom e Sinti che vivono un’assimilazione sofferta, che si mascherano, si mimetizzano, cambiano cognome e non si identificano o non voglio essere più identificati come tali.
Non possiamo chiedere gli occhi e non vedere quanti non si sentono né con la cultura di appartenenza né con quella degli altri: non più Rom/ Sinti ma nemmeno italiani.
Non possiamo chiedere gli occhi e non vedere coloro che esibiscono un’identità a seconda del contesto in cui si trovano, per cui l’identità Sinta/Rom all’interno del loro gruppo di appartenenza viene rinnegata al di fuori di esso.
Da secoli le minoranze Rom e Sinte fanno i conti con stereotipi e pregiudizi, lottando per il riconoscimento dei loro diritti, di cui il nome è uno di questi, anche se non sempre è sufficiente sbarazzarsi di un nome ingombrante e sgradito per cancellare fantasticherie e luoghi comuni
Se una sacrosanta rivendicazione del diritto a decidere del proprio nome non sarà accompagnata e sostenuta anche da un’operazione culturale intensa, forte e articolata nel territorio nazionale, si correrà il rischio di dare una semplice pennellata, letta più come strategia per intorpidire le acque che per evidenziare la positività di una cultura.
Come giustamente ha rilevato Aldo Levak, rom kalderash, non ci vorrà molto perchè Rom e Sinti vengano associati a quelle stesse persone che in modo dispregiativo, vengono denominati “zingari”; né un diverso nome potrà restituire quell’identità di cui alcuni hanno voluto liberarsene.
Secondo il mio giudizio i due settori più influenti per questa operazione sono la scuola e i mass-media, ma, mentre la maggior parte dei giornali e delle tv non hanno un ruolo di formazione, anzi spesso sono i principali responsabili degli stereotipi attraverso la manipolazione e la strumentalizzazione delle notizie, la scuola, soprattutto in questo momento storico, è nella condizione di adempiere al suo mandato educativo istituzionale.
Da qui l’importanza predominante della scuola per entrare in rapporto con gli altri gruppi, da qui la necessità di creare i presupposti per una logica del dare e avere in cui tutti siamo coinvolti.
La scuola, luogo in cui si costruisce il futuro di ciascun bambino non può limitarsi però ad alcune realtà territoriali, ma richiede, a mio parere, un cambiamento di rotta sostanziale, dove il “Progetto di scolarizzazione per Sinti e Rom” si deve connotare come “Progetto per l’esercizio del diritto allo studio anche per i Rom e i Sinti”.
Abbiamo tutti la convinzione che la scuola non può essere quindi l’unico soggetto responsabile, ma deve essere sostenuta da altri Enti ed Istituzioni, attraverso una politica nazionale che da un lato rimuova le disumane condizioni abitative e logistiche e dall’altro promuova, pur con ruoli e livelli diversificati, la partecipazione degli stessi Rom e Sinti.
In primis quindi quei Rom e Sinti con una forte e sicura identità interculturale, disposti e disponibili ad interagire con quanti sono al loro fianco, quei Sinti e Rom capaci di assumersi ruoli di responsabilità e di dialogo con tutti, quei Rom e Sinti che sanno superare ogni logica di interesse personalistico e/o familiare.
Allora la scuola diventa il luogo reale della partecipazione, dove non si rischia di perdere la propria identità culturale nella misura in cui anche i docenti sono nelle condizioni di poter affrontare con cognizione di causa tematiche relative alla cultura dei Rom e dei Sinti.
Un proverbio africano recita: “Se volete salvare delle conoscenze e farle viaggiare attraverso il tempo, affidatele ai bambini”… ed è proprio a loro che è necessario rivolgersi. di Maria Grazia Dicati
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