lunedì 17 marzo 2008

Peppe Collu, u baro Rom

“Tu ikandan e ludza, Andar mrno ilo” (Tu hai gettato i fiori nel mio cuore), da Aforismi di Rasim Sejdic. Il 5 di ottobre di tre anni fa se ne è andato Peppe Collu per anni referente regionale dell’Opera Nomadi in Sardegna. Giovanni Oliva ripropone il ricordo che ha scritto qualche tempo fa per lui su una rivista algherese. In foto, scattata a Roma da Carlo Berini, da sinistra Bernardino Torsi, Maria Grazia Dicati, Peppe Collu, Mario Salomoni e Davide Gabrieli.

Dove sarà in questo momento Peppe? Se ne è partito improvvisamente, come altre volte, senza dire niente, ma questa volta per mondi più lontani. Ne conosceva già tanti e alcuni me li aveva fatti conoscere. Con le sue antenne sensibili, rivolte ai segnali dei popoli, per raccogliere gocce di nettare da fiori multicolori, per ascoltare la gente, bambini, giovani, adulti, donne e vecchi di altre terre, di altri campi verdi, sotto lo stesso cielo.
Umanità dell’età dell’oro, re senza servitori, amico dei poveri, artista libero, forgiatore d’oro, non aspettava che lo straniero bussasse alla sua porta, lui gli andava incontro per salutarlo “Benvenuto” (“ospite sacro” pensando fra sé) come per domandare “Hai qualche messaggio per me nella tua lingua?”
…Huye luna, luna, luna / Si vinieran los gitanos, / Harian con tu corazon / Collares y anillos blancos…(da Romancero gitano di Federico Garcia Lorca)
Algherese, nato, figlio di emigrante, ai confini del paese italiano, in un luogo dal nome doppio: Claino con Osteno, portato dai venti, navigando sempre a vela, Peppe s’era arruolato volontario fra le schiere di un popolo nomade che non riconosce confini, che ha un’identità senza documenti.
Uomo raro, diventerà leggendario, di lui si ricorderanno in tanti e altri ascolteranno raccontare, di notte intorno a un fuoco, scintille che si mischiano con le stelle, della sua vita, delle sue stravaganze. Come quando, in mancanza d’altro, preparava la zuppa di mare con acqua salata e un pezzo di scoglio o quando arrivava al campo dei rom all’alba del giorno di festa, a svegliare tutti, portando l’allegria, con una corona di foglie in testa.
Cappello nero a falde larghe, colbacco siberiano, sombrero bianco messicano, cappello afgano… Dolce apparizione, nelle stradine de l’Alguer vella, a cavallo di una bicicletta raccolta non si sa dove. Ascolteranno raccontare dei suoi viaggi, mai programmati troppo in anticipo. Improvvisamente partiva. Dov’è Peppe? Si chiedevano gli amici. E’ in pellegrinaggio a piedi in Spagna, in Marocco, invitato dai suoi amici a bere the alla menta al calar del sole. Raccogliendo anelli e collane di argento ai confini del deserto. Peppe è in Francia, a Saint Marie de la Mer, cantando, ballando e facendo il bagno in mezzo ai gitani, in India alla ricerca delle origini. Peppe è in giro per la Sardegna, sacco in spalla, cavaliere solitario, parlando romanesh con i romá ad un congresso internazionale, Peppe è a Roma…
Riempiva biglietti con parole in tre o quattro lingue differenti: spagnolo – ungherese – rumeno – indiano… e altre strane combinazioni. Traduceva documenti dallo slavo, leggeva giornali sconosciuti. Studiava le lingue non per accumulare erudizione ma per curiosità pura, per un divertimento, le comparava per raffrontare suoni, per raffrontare sentimenti, pensando alla gente, ai paesi, alle prossimità e alle distanze. E sempre ritornando alla sua famiglia eccezionale e ad Alghero. Utopista concreto senza illusioni. Si sente la mancanza di Peppe, in questi giorni sciagurati. Lo voglio ricordare con i fratelli arrivati dalla Bosnia (che sempre penseranno alle cioccolate calde della sua Maria, nelle albe più fredde), ignorati da tutta l’altra gente, alle nostre feste: Gurgevdan, Pasomilai, Vassili. Ferro arrugginito e gioielli in mezzo al fango nella pineta (maskar e borori). Ballava con tutti, se sentiva una musica gitana, il suo corpo reagiva. E ballava con i bambini, con le donne e con gli uomini. Come fa chi ama la vita. Lui non sarà fra quelli a cui si dirà: “Per voi altri abbiamo suonato il flauto e non avete ballato”, Matteo 11.17.
Per te abbiamo pregato in italiano e arabo, per te abbiamo cantato in spagnolo e romanesh. Abbiamo pianto per te, te ne sei andato con il tuo viso da bambino, con i baffi di un vecchio patriarca di Boemia, padre di tanti figli di tanti padri. Dicono che sembravi un re, di quelli che non hanno servitori.
Gelem gelem lungone dromençar / Maladilem bakhtalè romençar / A rromale!len kotar tumen aven /E caxrençar, bokhale chavençar / Ai rromalen ! Ai chavalen!
Queste sono le parole di una canzone che per molti romá è un po’ come un inno: Andando Andando lungo le strade, ho incontrato romá felici. Oh uomini da dove venite? Con le tende e i bambini affamati? Oh uomini! Oh bambini!
Aprimi padre celeste le nere porte che io possa rivedere la mia famiglia. Un’altra volta andrò per le strade e andrò girando con i romá felici. Oh uomini! Oh bambini!
Avevo una famiglia numerosa, me l’hanno sterminata quelli della lega nera (milizia nazi-fascista), tutti sgozzati, uomini e donne, in mezzo a loro c’erano piccoli bambini Oh uomini! Oh bambini!
Alzatevi romá (uomini liberi) è arrivato il momento, venite con me e con tutti gli uomini liberi del mondo. Labbra nere e occhi neri io amavo come l’uva nera. Oh uomini! Oh bambini!

1 commento:

Anonimo ha detto...

Quando in ufficio è arrivata la lettera di Gianni Oliva con alcune copie dell'articolo ci siamo tutti commossi.
I ricordi si sono susseguiti senza freno, vent'anni di lavoro insieme non sono pochi.
Abbiamo ricordato di quando è arrivata la notizia della sua scomparsa improvvisa. E' stato un shock per tutti.
In quei giorni stavamo pubblicando gli atti del convegno sulla mediazione culturale ed è stato istintivo in tutti pensare di dedicare quel libro a Peppe.
Lo abbiamo fatto con queste parole:
tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerti porteranno il tuo ricordo nel cuore, sei stato e sarai sempre "u baro Rom".