Non è vero che le leggi sulla razza emanate dal governo fascista e entrate in vigore il 1 settembre 1938 furono un episodio isolato e neppure l'automatico prodotto dell'alleanza con la Germania di Hitler.
La cultura italiana - quella nazionalista e cattolica - conteneva già in sé le radici dei provvedimenti legislativi che isolarono e criminalizzarono gli ebrei ma anche i sinti e i rom, per poi farne carne da macello per i lager nazisti.
La legislazione razziale non fu un incidente di percorso. Solo con il 1987 risulta complessivamente abolita la struttura legislativa delle leggi razziali, permangono però ancora oggi in molte Questure italiane i fascicoli di Cittadini italiani classificati come “zingari”.
Le leggi razziali contro gli ebrei, introdotte nell'autunno 1938, hanno una loro gestazione concreta e una loro genealogia specifica. Ritenere che esse siano il prodotto di un contesto, che rispondano a una logica ferrea di alleanza nel quadro delle scelte di politica internazionale che il regime fascista andava costruendo nella seconda metà degli anni 30, è limitante, comunque non è sufficiente.
Si potrebbe ricordare come accenni antisemitici siano già presenti nella cultura politica italiana già nei primi anni del secolo [nel movimento nazionalista italiano], ancor prima nella pubblicistica cattolica [non solo di "Civiltà Cattolica", ma anche ne "L'Osservatore di Cristo" di Don Albertario e in numerose pubblicazioni diocesane nell'ultimo quarto dell'Ottocento] come pure già nella prosa mussoliniana ancor prima della marcia su Roma.
Questi aspetti possono essere letti come le premesse politiche di un discorso antisemita. Ma non è qui, o non solo qui, il nodo concettuale della questione. Infatti, la premessa concettuale al razzismo in Italia non nasce dall'antisemitismo profondamente presente nella cultura nazionale, ma questo vi viene ritradotto sulla base della cultura razzista che ha premesse consistenti, ma non coordinate, nella cultura fascista degli anni 20 e che acquista una sua coerenza teorica e politica con la guerra italo-etiopica.
Il razzismo in Italia, come discorso politico coerente, non come cultura, invece già presente, non nasce preliminarmente contro gli ebrei, ma in risposta al timore del "meticciato" come esito della vittoria militare in Etiopia. In altri termini: il razzismo ha il suo primo banco di prova nelle leggi promosse tra il 1936 e il 1937 riguardanti le popolazioni indigene africane appartenenti all'Impero italiano - ma "non facenti parte della nazione italiana". Esso ha le sue matrici culturali e i suoi criteri fondativi nella demologia e nello studio delle tradizioni popolari che acquistano gli studi di antropometrica [L. Cipriani], nella costruzione del mito della "Roma Augustea" [nel 1937 è celebrato il bimillenario della nascita di Augusto imperatore] attraverso il quale si riscrive il concetto di nazione italiana.
Le leggi razziali sono il frutto di una cultura e di una politica che in prima battuta non assume il sangue come criterio discriminante della classificazione, ma che fa della nazionalità il perno della questione della piramide gerarchica dei sudditi, suddividendoli tra cittadini italiani con diritti e cittadini senza diritti, ergo servi.
E' su questo piano che razzismo e antisemitismo si incontrano nella storia della politica italiana e nella vita pubblica in Italia. Sulla questione delle leggi razziali in Italia si è scritto molto in anni recenti. Ciò non toglie, tuttavia, che ancora prevalga un senso comune minimalista.
In Italia la vicenda dell'antisemitismo e del razzismo è stata assunta come un "corpo estraneo", scaricata sul nazismo, guardata e analizzata come un evento non correlato alla storia nazionale. In termini più ampi: se in Germania la cittadinanza [sociale, politica, culturale] costituisce una strozzatura cosciente della propria idea di nazione, in Italia si continua a ritenere che il Risorgimento e il processo di formazione dell'idea nazionale costituiscano un momento edenico e "senza macchie".
Preliminarmente è opportuno fissare un criterio: il razzismo non ha una relazione diretta con la quantità di morti. Come nota correttamente uno studioso del razzismo: "Il razzismo diventa totale se coloro che dirigono lo stato riescono a subordinargli tutto: la scienza, la tecnica, le istituzioni, ma anche l'economia, i valori morali e religiosi, il passato storico, l'espansionismo militare; se plasma tutti gli ambiti della vita politica e sociale e a tutti i livelli, senza dibattito né contestazione possibile". [Michel Wieviorka, "Lo spazio del razzismo", Il Saggiatore, pp.76-77], Uno stato e una politica sono razzisti in relazione alle regole statuite in merito alla cittadinanza e alla nazionalità. Il concetto di razza italica viene strutturandosi intorno a una visione storicizzata e progressiva del carattere nazionale.
Accanto alla genetica, all'antropologia fisica, all'etnologia, si afferma una componente legata al tema della tradizione popolare, ossia un elemento che trae spunto non tanto da un fatto "di sangue", quanto da un profilo in cui il tempo assume un valore eminentemente positivo e non corruttivo. Nel razzismo fascista il concetto di razza si fonda, invece, sulla sua evoluzione. L'accento non è posto prevalentemente su un dato biologico, bensì su uno comunitario. Il razzismo fascista, a differenza di quello nazista, si accredita come un composito di razzismo classico e di razzismo differenzialista, con il secondo prevalente sul primo. di David Bidussa, continua a leggere…
In foto Piazza Venezia, adunata del 10 giugno 1940. Sulla sinistra il palazzo delle Assicurazioni Generali, mentre il famoso balcone è sul lato opposto. Racconta Salvatore Romano: «In tutte e quattro le adunate generali io ero presente e sempre “piazzato” quasi sotto il fatidico balcone perché il percorso lo facevo veramente di corsa ed arrivavo sul posto dell’Adunata prima che la Piazza fosse gremita dalla “marea oceanica” di camicie nere come si vede nella documentazione fotografica dell’epoca».
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