giovedì 3 aprile 2008

Milano, violenza di Stato

Sono le 6.30 del mattino quando la colonna dei blindati della polizia si affaccia su via Bovisasca. All´interno dell’insediamento, oltre la recinzione, una piccola folla di donne e bambini sta finendo di caricare i bagagli sui carrelli della spesa. Sono gli ultimi dei 600 rom della Romania che abitavano sull’area inquinata dell’ex Montedison.
Il popolo della bidonville sorta sul terreno dei veleni aveva cominciato ad abbandonare il “campo” a notte fonda. Gli uomini hanno smontato un centinaio di baracche e hanno caricato le assi di legno sulle auto o sulle biciclette. Quando gli agenti all’alba entrano nell’insediamento e invitano donne e bambini ad uscire, i maschi sono già all’opera per ricostruire le «barachine» a poche centinaia di metri, in via Colico, su un’altra area ex industriale. Altre famiglie sono migrate verso via Poretta, Quarto Oggiaro, su un prato fra la ferrovia e via Palizzi. Con chiodi e martelli, gli uomini attrezzano qualche riparo di fortuna, perché le madri con i figli non debbano passare la notte all’addiaccio.
Non c’è quasi tensione nel lento esodo delle donne, che si incamminano fra le sterpaglie con i loro carrelli pieni di vecchie valige e i bambini ancora intontiti dal sonno. Tutte pensano che comunque un tetto per la notte ci sarà. «Gli uomini stanno costruendo qualcosa, mio marito ha perso la giornata di lavoro in cantiere per tirare su la nostra casa da un’altra parte», spiega una delle rom.
I volontari mandati dai padri Somaschi - che assistevano i Rom della Bovisa assieme agli educatori della Comunità di sant´Egidio - stanno a guardare da piazza Alfieri la lenta processione. Salutano le famiglie che conoscono. Don Massimo Mapelli, il braccio destro di don Colmegna, ha la faccia buia: «Da noi, in Casa della Carità, siamo pieni. Abbiamo ancora tutti i nomadi sgomberati da via San Dionigi. Non abbiamo nemmeno un letto libero per queste donne». Davanti al prete sfilano ragazze col pancione, giovani che spingono carrozzine, altre con i neonati attaccati al seno e i più grandicelli attaccati alla gonna. Le facce preoccupate, ma dignitose, nonostante tutto.
Solo una vedova con la pelle troppo rugosa per la sua giovane età, piange, tenendo in braccio una pupa di nemmeno un anno e richiamando un altro ragazzino che fa su e giù per il marciapiedi: «Mio figlio doveva andare a scuola e d’ora in poi non potrò più mandarcelo. Io sono sola, non ho un uomo che mi ricostruisca la casa. Come farò, povera me?». Ma la sua disperazione, alle 9 del mattino, sembra un caso isolato.
Tre ore più tardi, le donne in lacrime saranno molte di più. Alle 12.30, infatti, inizia il secondo sgombero della giornata. Cinquanta agenti del Reparto Mobile circondano il prato di Quarto Oggiaro, dove è approdato un centinaio dei Rom della Bovisa e dove è già stata ricostruita una ventina di baracche. Anche in questo caso non c’è bisogno di violenza per convincere i Rom.
«Sono stufo di questa vita - dice Ion, caricando i bagagli in macchina - Ho rimandato mia moglie e i figli in Romania, al nostro paese vicino a Craiova. Io lavoro in regola, faccio il muratore, non sono rom, ma se il mio capo mi vede nelle foto sul giornale mi prende per uno zingaro e mi licenzia. Io non ci resto a lungo in Italia, non ne posso più di sgomberi».
Sulla stessa linea Marian, che monta gli stand in Fiera: «Sei giorni alla settimana, 12 ore di lavoro al giorno, 800 euro al mese. Come faccio a pagarmi anche l’affitto con moglie e figli da sfamare?».
Alle 13 anche il prato davanti ai palazzoni di Quarto Oggiaro è di nuovo libero. Una colonna di uomini e donne dietro ai carrelli della spesa si incammina lungo via Palizzi e si disperde in mille rivoli per le strade della periferia. C’è chi prova a chiedere ospitalità in via Triboniano, e ne viene respinto. C’è chi va alla favela di via Dudovich, che il Comune annuncia di voler sgomberare a breve. C’è chi si appresta a pagare il pizzo per un giaciglio alla cascina Burrona di Pioltello, l’ultima spiaggia dei disperati che rimbalzano di sgombero in sgombero. di Zita Dazzi

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