Il Consiglio d’Europa li ha definiti l’unica vera minoranza etnica europea, l’Unione Europea ha formulato tutta una serie di raccomandazioni e linee guida per il miglioramento delle loro condizioni, il Parlamento Europeo ha votato a larga maggioranza una risoluzione che condanna ogni forma di razzismo e discriminazione nei loro confronti e sollecita la Commissione Europea a sviluppare una strategia per il loro inserimento, il nostro Ministero degli Interni li annovera tra le cosiddette minoranze senza territorio (ma di fatto non li ha ancora riconosciuti ufficialmente con lo status di minoranza).
La loro lingua discende dal sanscrito ed oggi viene insegnata in alcune delle più prestigiose università umanistiche. Sono di origini indiane e depositari di una cultura e di valori antichi, eppure ancora oggi sono tanti i pregiudizi che li costringono a vivere ai margini.
Vengono chiamati zingari, confusi con i rumeni o slavi rifugiati in Italia, piegati dalla fame e dediti alla questua o ad affari illeciti, o, ancora, con i barboni, eppure i sinti non hanno niente a che vedere con loro. Sono pacifisti, non sono mai stati accusatori, ma sempre accusati, in altri tempi sterminati. Sono i figli del vento, nomadi giostrai o circensi da generazioni, ma ormai in molti si sono stanziati.
Vladimiro Torre è uno di loro, vive in provincia di Reggio Emilia dove è nato e cresciuto una sessantina d’anni fa, quella è sempre stata la sua terra, è lì che è sempre tornato anche da bambino o da giovane, quando era ancora giostraio. E’ una figura forte, carismatica nel popolo dei sinti e da dieci anni, da quando ha fondato l’associazione Them Romanò (Mondo Rom) Onlus di cui è presidente, si batte per i loro diritti.
«A un certo punto abbiamo capito che non potevamo più essere rappresentati dai gagi – afferma con un inconfondibile cadenza emiliana/mista a una specie di veneto, quest’ultimo tratto tipico dell’accento sinti. Ai convegni sui sinti c’erano solo gagi: gagi politici, gagi preti, gagi a capo di associazioni nomadi, insomma erano solo loro che parlavano per noi. Ma perché le cose cambiassero era chiaro che noi stessi dovevamo rappresentarci e farci portavoce dei nostri diritti, così nel 1998 è nata Them Romanò».
E aggiunge «Siamo attivi un po’ su tutto il territorio nazionale, ma in particolare in Emilia Romagna, comunque siamo riconosciuti a livello europeo, da Strasburgo». Inoltre, Vladimiro Torre è stato eletto nel Consiglio Direttivo della Federazione Rom Sinti Insieme che unisce le maggiori organizzazioni sinte e rom italiane.
Che vuol dire per voi vivere nel mondo dei gagi?
Vivere con i gagi significa fargli comprendere e accettare la nostra cultura, significa far capire che non è una vergogna avere una cultura e una lingua diverse dalle loro. Eppure se vogliamo lavorare, se vogliamo andare a scuola dobbiamo dimenticarci della nostra cultura e dobbiamo uniformarci a loro, perché se scoprono che siamo sinti non ci vogliono più. I nostri bambini non parlano quasi più il sinto, la nostra lingua, perché assolutamente non devono parlarlo davanti ai gagi altrimenti verranno emarginati.
A cosa pensi sia dovuta questa diffidenza nei vostri confronti?
Sicuramente una buona parte di responsabilità spetta ai media, sono disinformati, pensano che basti vivere in una roulotte o in una baracca per essere un nomade, per cui qualsiasi extracomunitario venga qui in Italia basta dica di essere un sinti per essere assegnato ad un campo. Poi magari in realtà è persino un gagi, e se è una persona senza scrupoli e fa’ del male allora dicono che è stato uno di noi.
E come la mettiamo con i bambini che chiedono l’elemosina?
Non sono bambini sinti. Un sinti non manderebbe mai i suoi figli a elemosinare. Ho quindici figli e diciannove nipoti, non è sempre stato facile sbarcare il lunario ma se proprio mi trovassi costretto piuttosto andrei io a fare l’elemosina. Per noi i bambini sono sacri, è impensabile mandarli per strada.
Tu sei anche mediatore culturale tra gagi e sinti per il Comune di Bologna, per l’Emilia Romagna, e sei nel coordinamento nazionale dell’Unione Nazionale e Internazionale Rom e Sinti in Italia, oltretutto sei anche candidato al Parlamento Europeo per le elezioni dell’anno prossimo, quali difficoltà incontri nella tua attività?
La difficoltà è proprio quella di mediare tra due culture diverse, da una parte ci sono i gagi, dall’altra i sinti ed è difficile . Io spesso mi ritrovo ad andare nei campi nomadi a spiegare che cos’è l’unione europea, dall’altra parte ci sono i gagi con i loro pregiudizi. Quando vengo fermato ad un posto di blocco e la polizia mi chiede i documenti e vede che sono un sinti inevitabilmente fa dei controlli. Quando si accerta che sono incensurato mi dice che sono semplicemente stato furbo, perché, per loro, se sei nomade hai sicuramente fatto qualcosa di illegale nella tua vita. Mi dicono: “Sei stato furbo, non ti sei mai fatto cogliere sul fatto”. Queste sono parole che fanno male. E’ difficile far comprendere a un gagi quello che siamo, i nostri valori, la nostra cultura, la nostra umanità. Dall’altra parte i sinti sono stanchi, non credono più nei gagi, quando cerco di mediare e spiegare alla mia gente la politica, la storia dei gagi talvolta mi dicono che a furia di frequentarli comincio a parlare come loro, che sto diventando come loro.
È vero che voi nomadi rifiutate il lavoro salariato in nome della libertà?
Noi sinti per tradizione abbiamo sempre svolto lavori autonomi (giostrai, circensi, artigiani, allevatori). Non siamo mai stati sotto padrone, è difficile far capire le regole del lavoro salariato ai giovani sinti. Inoltre loro sono più portati per i lavori all’aperto, non è facile per un nomade ritrovarsi al chiuso per ore, magari dietro una scrivania. In questi casi bisogna sensibilizzare il datore di lavoro e abituare i nomadi al lavoro dei gagi. Inoltre è completamente assente qualsiasi conoscenza o cultura del sindacato, che si traduce spesso nell’essere calpestati nell’ignoranza dei propri diritti: i casi di datori di lavoro che ci licenziano dopo averci assunto e aver scoperto che siamo sinti non si contano. Ovviamente questo si riverbera in un’incomprensione reciproca, noi sinti vorremmo lavorare e non capiamo bene i pregiudizi di certi, purtroppo ancora tanti, gagi che a loro volta non riescono a vederci per quello che siamo: non siamo stranieri, siamo come loro, viviamo qui da secoli, eppure ci trattano come diversi, e tanto per dirne una, per i nostri documenti dobbiamo fare le file riservate agli extracomunitari. Ma noi siamo italiani ecco, queste barriere andrebbero finalmente cancellate, ne andrebbe a tutto vantaggio di una migliore integrazione tra tutti. E comunque anche la nostra tradizione di giostrai (Vladimiro spiega che sono anche loro imparentati con gli Orfei e i Togni, tutti sinti, ma sul momento non ricorda se di 4° o 5° grado…) non è così scontata: le zone per le giostre vengono sempre più delocalizzate e questo fa calare vertiginosamente il lavoro, in più sono sempre fatiche mostruose per avere i permessi per montare le giostre e spesso ci si riesce solo attraverso raccomandazione.
Cosa vorresti principalmente per la tua gente?
La possibilità di poter studiare. Vorremmo che i nostri figli potessero accedere come i gagi agli strumenti per potersi inserire e integrare nella società, che avessero un’istruzione e un lavoro. Noi siamo stati disgraziati, ma vogliamo migliori possibilità per i nostri giovani. L’istruzione per noi significa anche iniziare a superare le discriminazioni e la possibilità di un accesso al lavoro significa evitare di cadere nell’illegalità. I livelli di scolarizzazione dei sinti qui a Reggio Emilia sono bassi, ancora oggi i nostri ragazzi si fermano alla licenza media. L’unico caso di una sinti che ha frequentato le superiori arrivando al diploma è stato di una mia nipote cinque anni fa. I media se ne sono interessati, avrebbero voluto intervistarla ma lei si è rifiutata, non voleva che i suoi amici sapessero che era una sinti. Io stesso ho avuto la possibilità di imparare a leggere e scrivere soltanto da autodidatta.
Perché una scolarizzazione così bassa?
Per diversi motivi, un po’ perché i campi nomadi sono stanziati lontano dai centri abitati e dalle scuole, non ci sono sufficienti mezzi pubblici e il Comune mette a disposizione dei pullman solo per i ragazzi che frequentano le medie. Se uno dei nostri ragazzi vuole andare a scuola è costretto a cambiare tre autobus.
Una delle cause per cui la tua associazione attualmente si sta battendo è quella delle microaree. Come si vive nei campi nomadi?
Io mi sono tirato fuori dai campi nomadi, sono dei ghetti. Si vive male, ammassati, segregati. Nel campo nomadi di Bagnolo in Piano ad esempio vivono trecento persone stipate in poco meno di duemila metri quadri, quando una legge regionale prevede per ogni campo la presenza di sessanta fino ad un massimo di novanta persone. Troppe famiglie dividono pochi servizi igienici e gli allacciamenti della corrente elettrica, quest’ultimo è un problema perché se una famiglia vive fuori dal campo per diversi mesi deve comunque dividere le bollette con gli altri, se una famiglia non può permettersi di pagare gli altri devono pagare per lui o c’è il rischio che taglino la corrente, e in quel caso tagliano la corrente a tutti. Questa sarebbe una cosa grave visto che le abitazioni, essendo in lamiera, durante l’inverno sono molto fredde e c’è bisogno di due o tre fornelli elettrici per scaldarle.
Non è difficile pensare che in questi campi, vivendo in queste condizioni di indigenza e di emarginazione, si diffondano elementi di criminalità minorile e non solo. Talvolta circola la droga tra i nostri giovani, in un campo tutto diventa meno controllabile che dentro la famiglia. E’ per questo che, con l’aiuto del Comune, abbiamo istituito delle chiese evangeliche, che fanno parte della Missione Evangelica Zigana, all’interno dei campi. I nostri pastori sinti si adoperano per recuperare i nostri giovani che hanno perso la retta via e la speranza e svolgono un’importante ruolo di coesione sociale all’interno della comunità.
Cosa fa la tua associazione per ovviare a tutto ciò?
Cerchiamo di superare il discorso del ghetto, tipico dei campi nomadi. Siamo l’unico paese in Europa ad avere ancora i campi nomadi: nel 2006 il Consiglio d’Europa ha condannato l’Italia per la politiche abitative dei campi e degli sgomberi. Eppure ancora non si muove molto. ci stiamo battendo per istituire al loro posto delle microaree, dove, in un terreno più ristretto, vivono solo poche famiglie, possibilmente consanguinee. Come fanno già nel resto d’Europa e come hanno già iniziato a fare a Bolzano con ottimi risultati. Attualmente sono sorte sei microaree e il comune di Reggio Emilia ha promesso di crearne altre sei.
Le microaree si basano su un patto di inclusione sociale chiamato “dal campo alla città” che prevede diritti e doveri comuni a tutti, inserimento scolastico, lavorativo e autonomia economica, certo c’è ancora molto da fare e da migliorare, ma abbiamo la promessa ufficiale del Sindaco (di Reggio Emilia) che si faranno. Poi nel corso degli anni abbiamo fatto una serie di corsi per la nostra comunità: alfabetizzazione innanzitutto poi informatica, corsi professionali di avviamento al lavoro in collaborazione con sindacati, associazioni di categoria, enti locali dai comuni alla Regione, associazioni di volontariato, Caritas, Cna, unione di commercio fino a un’importante iniziativa comunitaria finanziata dal Fondo Sociale Europeo e dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. di Giuseppina Aiello
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