mercoledì 2 luglio 2008

Impronte ai bimbi: Ue chiede conto a Maroni

Il pasticciaccio brutto di via del Viminale sulle impronte dei bambini rom rischia di precipitare l'Italia in un mare di guai a Bruxelles. Dagli uffici del commissario alla Giustizia Jacques Barrot, che nei giorni scorsi si sono già scottati con la vicenda, proviene un gelido silenzio: «Per ora siamo alle indiscrezioni sui giornali italiani e non esiste alcunché di ufficiale, e neppure di ufficioso. Solo quando riceveremo una qualche comunicazione dal governo di Roma saremo in grado di giudicare». Il governo di Roma, et pour cause, si guarda bene dal comunicare checchessia. Tattica miserevole, giacché il colpo duro sta arrivando, intanto, da un'altra parte.
Da voci (solide voci) raccolte al Barleymont, il palazzo della Commissione, sarebbe imminente la partenza per palazzo Chigi di una lettera con una perentoria richiesta di spiegazioni. A inviarla sarebbe il commissario agli Affari sociali, il cèco Vladimir Špidla nella cui competenza rientrano tutti i casi di concreta violazione delle norme contro le discriminazioni. A prescindere dalle sorti legislative dei provvedimenti di cui si discute, le autorità italiane - questa la ratio della lettera - stanno già prendendo le impronte digitali dei bambini di etnìa rom e ciò contrasta con una serie di disposizioni dell'Unione e, in modo particolare ed evidentissimo, con la direttiva 2000/43/CE, la quale vieta espressamente trattamenti particolari sulla base della «origine etnica» dei cittadini. In una parola: il fatto di essere in attesa di comunicazioni ufficiali non esime la Commissione europea dall'obbligo, intanto, di intervenire (e lo farà Špidla), lasciando impregiudicata l'analisi giuridica dei testi che spetterà, a suo tempo, a Barrot.

Nella lettera si chiederà un rapporto dettagliato su quanto è avvenuto e sta avvenendo nei campi rom e se la risposta non sarà soddisfacente, l'Italia andrà incontro a sanzioni che vanno dall'apertura di una procedura di infrazione (una «pena» leggera nella normativa Ue, ma con un forte impatto di immagine in un caso che riguarderebbe i diritti fondamentali della persona) al deferimento alla Corte di Giustizia per violazione dell'art. 6 del Trattato dell'Unione, che sarebbe una prima storica assoluta, fino, almeno in teoria, all'applicazione dell'art. 7 del Trattato stesso, il quale, con procedure ultragarantiste e molto rigide ma comunque praticabili, prevede addirittura la sospensione di uno Stato dall'Unione. Finora l'art. 7 è stato evocato solo due volte: come minaccia all'Austria, quando il cancelliere cristiano-democratico Wolfgang Schüssel chiamò al governo Jörg Haider, e nei momenti peggiori dei rapporti tra Bruxelles e la Polonia dei cattivissimi gemelli Kaczynski. Tutte e due le volte non se ne è fatto nulla.
Il ricorso all'art. 7 è quasi fantascienza, almeno allo stato attuale dei fatti, non fosse che perché tra le condizioni che prevede c'è, fra le altre, una maggioranza di tre quarti del Parlamento europeo. Ma le altre opzioni sono apertissime e potrebbero scattare tanto nell'immediato futuro, se Maroni insisterà, quanto alla fine dell'istruttoria che si aprirà quando il governo italiano, bontà sua, si deciderà a spiegare a Bruxelles che cosa intenda fare.
Quello manda in bestia i responsabili della politica dell'Unione, compreso, pare, lo stesso José Manuel Barroso che di Berlusconi non è mai stato nemico, è, oltre al merito, anche il metodo con cui Maroni e i suoi colleghi, a cominciare dall'inutile ministro alle Politiche comunitarie, si stanno muovendo sulla questione. E non ha certo aiutato l'ennesima, infelice uscita da mosca cocchiere del presidente del Consiglio italiano sul «silenzio» cui, secondo lui, sarebbero tenuti i commissari europei di fronte agli affari dei governi.
Maroni - si fa notare - ha detto «una cosa molto imprecisa» sostenendo che la prassi europea già prevede anzi «rende obbligatorio» il rilevamento delle impronte digitale dei bambini. Il regolamento 2008/380, cui l'incauto ministro ha fatto riferimento, fissa le norme tecniche (biometriche) per la concessione dei permessi di soggiorno ai cittadini, bambini sopra i sei anni compresi, extracomunitari. È una normativa che serve a facilitare, uniformando i criteri, il lavoro della polizia nei diversi paesi. Niente a che vedere con i rom, che in Italia sono all'80% cittadini italiani o comunitari, e soprattutto niente a che vedere con criteri selettivi basati sulla «razza» o sull'etnìa, espressamente vietati (e puniti) dalla 2000/43.
Con la sua affermazione il ministro italiano ha gettato discredito sull'intero, delicatissimo, capitolo della politica anti-discriminazioni della Ue. Che l'abbia fatto per leggerezza o con piena consapevolezza, il risultato non cambia. Tanto più che per la sua ordinanza Maroni ha utilizzato in modo molto disinvolto anche la legislazione italiana in un punto (la protezione civile contro le catastrofi naturali) che sta molto a cuore, anche questo, ai responsabili europei. «L'Italie c'est l'Italie - commentava ieri un alto funzionario del Consiglio dei ministri - ma vi rendete conto del precedente che rischiate di creare? Se passa l'idea che si possono adottare misure straordinarie contro le calamità ai problemi creati dagli immigrati, chi impedirà che un giorno il governo di tale o tal altro paese giudichi la tale o tal altra minoranza una calamità da trattare extra-legem?». di Paolo Soldini

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