mercoledì 11 febbraio 2009

Milano, le osservazioni al regolamento del Tavolo Rom

La bozza di “Regolamento delle aree destinate ai nomadi nel territorio del Comune di Milano” formulato dal Prefetto di Milano, Commissario per l’emergenza nomadi in Lombardia, presenta alcune caratteristiche e previsioni che hanno destato forte preoccupazione nel Tavolo Rom, che intende qui indicarne gli aspetti problematici e i profili di illegittimità.
1. L’inaccettabile riduzione ad una delle forme dell’abitare.
Il Regolamento è diretto a disciplinare “le aree destinate ai nomadi nel territorio del Comune di Milano”. Di fatto, nel Regolamento si parla solo di “aree di sosta transitoria”.
Prima ancora di entrare nel merito dei contenuti, riteniamo prioritario premettere che sul territorio milanese, i “campi” costituiscono un’offerta residenziale pubblica assai differenziata. Molti di essi non sono stati pensati e costruiti come aree di sosta transitoria, ma come dimore stabili per nuclei familiari allargati.
Il Regolamento riduce la varietà di offerta residenziale e tratta tutte le diverse fattispecie alla stregua della sola formula dell’area di sosta attrezzata. Ma questa tipo di offerta residenziale era stata pensata inizialmente per gli operatori dello spettacolo viaggiante (giostrai e circensi), prevalentemente Sinti. Il Regolamento non tiene conto della realtà attuale a Milano, in cui i campi presentano una gamma differenziata di possibilità abitative-insediative. Il Regolamento non sembra regolare l’abitare delle persone, ma solo la sosta, per di più transitoria.
Con questo non intendiamo dire che i campi più grandi, spersonalizzati, non debbano essere superati: è inaccettabile, però, assegnare ad una sola formula abitativa dei gruppi assai differenti, per altro assai eterogenei fra loro. La pluralità delle formule abitative scelta dal Comune di Milano considerava l’eterogeneità del mondo rom e la molteplicità dei percorsi e dei progetti che si manifestano al suo interno. Occorre differenziare: molti dei campi regolari a Milano non sono luoghi di ospitalità temporanea, non sono centri di accoglienza, sono luoghi in cui si abita.

Va peraltro sottolineato come la bozza di Regolamento, se veramente restringesse l’offerta residenziale ai campi di sosta transitoria si porrebbe in contrasto proprio con la normativa regionale citata all’art 1 del Regolamento stesso, ossia legge regionale n. 77/989 che, nel disciplinare gli interventi rivolti alla tutela delle popolazioni, a) distingue fra campi di transito e campi di sosta, stabilendo che i Comuni debbano individuare “distintamente” campi di transito e campi di sosta; b) anche per questi ultimi, non pone limiti temporali di sorta; c) prevede che i Comuni possano realizzare altresì “progetti di zone residenziali intese a favorire la sedentarizzazione comunitaria dei nomadi”, specificando che “l' ubicazione dei campi e delle zone residenziali deve essere individuato in modo da evitare qualsiasi forma di emarginazione urbanistica e da facilitare l'accesso ai servizi e la partecipazione dei nomadi alla vita sociale”.
Non pare che la soluzione individuata dal Regolamento come soluzione per le “aree destinate ai nomadi nel territorio di Milano” soddisfi questi requisiti di legge.
2. La transitorietà come condizione definitiva è una violazione della libertà di movimento e della vita privata e familiare dei Rom, del diritto all’istruzione dei minori e una barriera all’integrazione sociale.
Il Regolamento regola un’offerta residenziale i cui beneficiari sono qualificati come “nomadi”. Il principio base è che nelle aree sosta per i nomadi non si possa in nessun modo rimanere più di tre anni. Non si capisce, però, dove debbano andare le persone che vi abitano: se per alcuni di questi gruppi abitazioni ordinarie, di produzione pubblica e di produzione privata, possono essere un’opzione facilmente percorribile (purché vi siano investimenti in mediazione, sostegni all’autonomia e per l’accesso al credito), per altri invece sono più opportune aree attrezzate in funzione residenziale, di proprietà o in affitto, per piccoli gruppi familiari da ricomprendere nel PGT, eventualmente anche realizzati con autocostruzioni accompagnate.
Non si capisce neppure come sia possibile garantire, a queste condizioni, il diritto all’istruzione dei minori, che, dopo tre anni dovranno di necessità interrompere il loro percorso scolastico. E come si pensa di garantire che gli adulti non perdano il lavoro.
Infine, per adulti e bambini, si interromperanno a forza i percorsi di integrazione sociale faticosamente intrapresi.
Vale la pena ricordare anche che, nel caso dei cittadini italiani ed europei, in nessun modo è possibile limitare la libertà di movimento (e quindi anche di fermarsi e di abitare) su una base etnica. Il farlo costituirebbe un’evidente violazione degli artt. 3 della Costituzione, degli articoli 12 e 39 del Trattato CE, dell’art. 14 della CEDU. Ma, più in generale, in riferimento all’intera etnia Rom, la giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo è ormai costante nel ribadire che “la posizione vulnerabile dei nomadi in quanto minoranza comporta che debba essere prestata una particolare attenzione alle loro esigenze ed al particolare stile di vita, tanto nella pianificazione urbanistica quanto nella decisione in merito a particolari situazioni” (Si vedano le sentenze Connors, Chapman, Buckley, c. Regno Unito; D.H.c. Repubblica ceca). E che “dunque in ragione di ciò incombe sugli Stati membri, in virtù dell’art. 8 della CEDU, un’obbligazione positiva di favorire lo stile di vita nomade.”
In particolare, nel caso Chapman, la Corte ha sottolineato che, qualora, perché costretti o per loro scelta, gruppi di Rom e Sinti non conducano più una vita nomade, ma decidano di “stazionare per lunghi periodi in un luogo, anche per favorire – ad esempio- l’educazione dei figli …qualsiasi misura che incida sulla possibilità per il gruppo di stazionare su un terreno con propri caravan, roulottes, ha un impatto che va oltre il diritto al rispetto dell’abitazione. Esse incidono anche sulla la possibilità per loro di mantenere la propria identità di nomade e di condurre la propria vita privata e famigliare secondo quella tradizione”.
3. La regolamentazione discriminatoria della sicurezza e delle libertà delle persone, la mancanza di reali interventi di promozione sociale violano il diritto nazionale e sovranazionale.
Venendo ai contenuti specifici del Regolamento, questo regola un’offerta residenziale pubblica in base a principi di eccezione di cui non si capisce il fondamento. Esso contiene restrizioni forti delle libertà personali (ad esempio non poter invitare i propri amici e parenti senza autorizzazione del gestore; non poter ricevere visite dopo le 22.00 senza autorizzazione). La revoca della “autorizzazione alla permanenza” al nucleo familiare qualora a carico di uno dei suoi componenti venga accertata sopravvenienza di condanne definitive costituisce una pena accessoria illegittima che non può essere decisa in sede amministrativa. Nell’intero procedimento di revoca manca ogni garanzia del contradditorio e del diritto ad una difesa effettiva e si manifesta una specifica violazione del diritto di partecipazione al procedimento amministrativo.
Il fatto che il comitato di gestione non veda al proprio interno dei rappresentanti delle comunità rom e degli enti gestori è un limite forte, che riduce le conoscenze dello stesso comitato di gestione e spreca un’opportunità di partecipazione e rappresentanza preziosa per le comunità locali. Anche in questo caso, si sarebbe dovuto tener conto di quanto stabilisce la l.r. 77/9, che all’art. 2, lettera d) prevede che gli enti territoriali debbano “promuovere la partecipazione delle popolazioni nomadi alla predisposizione degli interventi che li riguardano”.
Si ritiene improprio chiedere ai gestori sociali delle funzioni di “presidio sociale” oltre a quelle appropriate di “promozione sociale”. Infine, ma non per questo di minore importanza, mancano le indicazioni degli strumenti per dare corpo a interventi di integrazione: il giusto richiamo alla mediazione culturale, agli interventi finalizzati all’inserimento sociale, scolastico e lavorativo e all’accompagnamento nei percorsi di autonomia finalizzati al reperimento di una diversa e autonoma soluzione alloggiativa, non può essere dichiarato in maniera estemporanea ma deve trovare strumenti e risorse adeguate. E’ nostra convinzione che su questo dovrebbe insistere un regolamento, e non solo su elementi di repressione e controllo, per altro garantiti dalla legislazione ordinaria e che non necessitano di un intervento differenziale speciale solo per singoli gruppi etnici.
L’insistere su un regime speciale (nel senso di più restrittivo) dell’abitare, del muoversi sul territorio, della possibilità di intrattenere rapporti familiari, di lavorare, di studiare, costituisce una discriminazione su base etnica che rende il Regolamento illegittimo sulla base del diritto nazionale (ed in particolare dell’ art. 43 del TU Immigrazione del d.lgs. 215/03) e sovranazionale (in particolare della Direttiva CE 43/2000 e dell’art.14 CEDU).
Nella recente decisione Sampanis della Corte di Strasburgo si legge: “in ragione delle loro vicissitudini e del loro perpetuo sradicamento, i Rom costituiscono una minoranza sfavorita e vulnerabile che ha un carattere particolare … Hanno quindi bisogno di una protezione speciale” (Corte europea dei diritti dell’uomo, Affaire Sampanis et autres c. Grece, 5.6.2008).
Se di diritto speciale si deve trattare, si pensi a misure speciali che tengano conto di questa situazione di svantaggio sociale e di vulnerabilità. Non a misure che discriminino ed escludano.
In questo spirito, noi chiediamo che, con l’attiva partecipazione dei destinatari, i Rom, il Regolamento venga modificato nel senso che abbiamo appena indicato. di Tavolo Rom

Nessun commento: