sabato 28 febbraio 2009

Rom e Sinti nella letteratura/2 - IL MEDIOEVO

I Rom-Sinti arrivano in Italia, e in Europa, in un’epoca fitta di personaggi curiosi; sulle strade, tra i campi e attraverso le città si incontrano “mercanti, sensali, venditori ambulanti e girovaghi, monaci questuanti o vaganti in fuga dal convento, frati perdonatori e venditori di reliquie, chierici senza patria, poeti cortigiani e cantastorie, studenti itineranti chiedenti la carità muniti della lettera col sigillo universitario, corrieri e cursori, indovini e chiromanti, negromanti ed eretici, settari e predicatori d’ogni ordine e disordine, medicastri e guaritori, istrioni, bari e giocolieri […] Venivano poi gli artigiani e i lavoratori itineranti” [Piero Camporesi (a cura di), Il libro dei vagabondi]. Quello del vagabondaggio è, quindi, un fenomeno in certo modo connaturato al Medioevo, un tempo che si regge però in pericoloso equilibrio tra varie coppie di opposti. In questo contesto, l’emarginato è, da un lato, il prodotto della stessa società e di una tradizione cattolica plurisecolare, figura da rispettare in quanto opera di Dio, o addirittura sua immagine, cui si deve carità; d’altro canto, questo personaggio è ritenuto, come la peste e le guerre, un castigo divino abbattutosi sull’umanità peccatrice, un portatore di sventure che agisce in combutta con il Maligno, un reietto da cacciare (…uom ch’è truante col diavol s’afferra da "Il Fiore e il Detto d’Amore", a cura di E. G. Parodi. Truante: accattone, vagabondo), teoria alla quale aderirà con convinzione anche Martin Lutero.
Lo stesso procedere per contrasti divide la struttura sociale medievale: caratterizzata da “mobilité”, a dirla con Le Goff e ad analizzarne le schiere di viaggianti di varie nature; oppure “local et sédentaire”, secondo una definizione di H. Focillon. Da una parte la stabilitas, dall’altra la vagatio, la nevrosi dell’instabilità e della peregrinazione.

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