martedì 6 ottobre 2009

La Lega ha un progetto, il Pdl no

Tutti i commentatori concordano nel ritenere che le disavventure che negli ultimi sei mesi hanno coinvolto Berlusconi, indebolendolo oggettivamente, hanno consentito a Bossi di acquisire ulteriore potere di indirizzo all’interno della compagine governativa. E conseguentemente di alzare i toni e il livello delle richieste.
Tant’è che Fini, l’unico politico di livello superiore portato in dote da An al Pdl, ha compreso che urgeva uno smarcamento netto dalla coppia che si ritrova a cena ad Arcore tutti i lunedì o quasi.
In realtà, però, i prodromi dei successi leghisti erano insiti già tutti nel clima generale che preparò il risultato delle elezioni politiche 2008. Che furono sì un successo personale di Berlusconi, ma anche e soprattutto il trionfo delle tematiche leghiste o comunque del modo attraverso il quale la Lega aveva saputo proporle all’elettorato. La sicurezza, da cui la lotta ai migranti, tutti genericamente avvertiti come clandestini e come potenziali delinquenti. Il localismo, da cui la lotta per il federalismo.
La spinta alla vittoria, larga, della destra è venuta da lì, dalla determinazione della Lega. Decisiva al Nord, cioè dove risiede la vera forza economica del paese. Questo Berlusconi lo sa. E lo sa bene. Quindi ne tiene conto. Anche perché, se non lo facesse, Bossi (alla sua maniera: rude) glielo ricorderebbe in un amen.
È sul tema della chiusura all’immigrazione, dell’allontanamento dello straniero che la Lega ha allargato in modo impressionante il bacino del consenso e può allargarlo ancora. La componente xenofoba, che è senz’altro minoritaria fra i dirigenti, sta però divenendo vieppiù importante dal punto di vista elettorale. E quindi va tenuta in caldo. Come ha scritto Ilvo Diamanti, nuovi nemici (ci vuole sempre un nemico, per prendere tanti voti) hanno lasciato sullo sfondo i vecchi, peraltro tenuti sempre ben presenti: e così i musulmani, la Turchia, l’Europa a 27 hanno sopravanzato Roma, le banche, la Chiesa curiale e papalina. La paura. L’insicurezza. Il fastidio provocato dagli “zingari”, sporchi, accattoni, ladri.

Presi i voti la Lega li ha fatti valere. Col ministro preposto ad hoc: Maroni fa il lavoro che gli elettori leghisti – e, attenzione: molti altri potenziali – chiedono: pulizia, meno clandestini, meno musulmani. L’agenda del governo, in questo primo anno, è tutta leghista: ronde, respingimenti in mare dei disperati, reato di clandestinità. E poi il federalismo. D’altro c’è solo Tremonti (che supervisiona tutto e decide su molto, come s’è visto nel caso della scuola), le intemerate di Brunetta contro i fannulloni e adesso pure la «sinistra per male», e Alfano, meglio dire il lodo Alfano. Al solito: il brillante ministro dell’economia che nulla fa per arginare la crisi ma parla bene ed appare sempre sicuro, convincente. E i guai giudiziari del premier.
Quasi tutti gli altri ministri: non pervenuti. E così la Lega comanda. Impone e dispone. Ma Bossi sa che non basta. Da un lato perché non si può governare e al tempo stesso essere opposizione di sistema senza pagare qualche prezzo. E quindi ha sempre bisogno di stare in movimento, essendo lunghi, a volte lunghissimi i tempi nei quali si producono e si esplicitano i risultati (eventuali) dell’azione di governo.
Ecco perché rilancia. Con cadenza periodica. Non può giacere sugli allori. Dall’altro perché la vera, profonda ragione sociale della Lega resta un’altra. Il motivo per il quale è nata. La sfida della vita per Bossi e i fondatori del movimento. L’indipendenza del Nord. La repubblica padana. Un progetto, un’idea, un valore alto. Quello che il Pdl non ha.
Localismo, da cui deriva l’impegno federalista, vuol dire molte cose. Significa presenza assidua sul territorio: un partito davvero radicato, in grado – per dire – di organizzare feste popolari in agosto quando i locali sono chiusi e tanta gente rimasta a casa ben volentieri esce la sera per mangiare in compagnia a prezzi moderati e ballare gratis; un ceto di amministratori ormai di qualità, spesso poi premiati con posizioni più importanti purchè rimangano ancorati alle proprie realtà (si dice che il controllo di Bossi in persona su questo punto sia ferreo); una difesa arcigna degli interessi della comunità locale al fine di ottenere quello che De Rita chiama “consenso orizzontale”, che si diffonde appunto a livello di base guardando agli immediati interessi popolari (con l’inevitabile rischio, va da sé, del corporativismo localistico).
Il federalismo è a supporto del localismo. Detto meno enfaticamente: ciascuno si tiene a casa sua i soldi suoi. Così lo intendono i leghisti ed è questo il motivo per il quale non sarà facile per la maggioranza tradurre le linee generali della legge in decreti attuativi concretamente operativi. Nel Pdl la presenza non nordista è ovviamente consistente, e sempre più insofferente – non solo nella componente finiana ex aennina – di fronte allo strapotere della Lega (che si avvale, fra l’altro, del supporto di Tremonti, come non bastasse quello del Premier).
Peraltro, il minacciato partito del Sud che altro non è, agli occhi dell’elettorato leghista, se non la conferma, la prova provata che il Sud rimane prigioniero dei suoi ritardi, dell’assistenzialismo pubblico, delle inefficienze congenite? Anzi, la conferma che l’Italia è divisa, irrimediabilmente spezzettata e che quindi hanno senso le nuove parole d’ordine, che abbiamo ascoltato questa estate: gli esami di dialetto per gli insegnanti, le bandiere regionali, il “Va pensiero”, le gabbie salariali. Un modo per rilanciare, per tenere alta la mobilitazione presso la base. Per tenere sotto tensione gli alleati e dimostrare capacità propositiva ininterrotta. Sempre con un orizzonte ben preciso: allontanare progressivamente il Nord dal Sud del paese. Tutto infatti alla fine si tiene.
E dove strategicamente punti, Bossi lo ha detto a Venezia, dopo qualche anno che la parola era stata bandita: alla secessione del Nord, alla Padania. La strada sarà lunga, ci saranno molti ripiegamenti tattici ma l’obiettivo ultimo è quello. La Lega cioè ha una sua forte e ineguagliabile personalità, ha una sua ragione sociale di natura ideale che può proiettarla verso un futuro da conquistare, che poi è il bello, l’entusiasmante della politica. Ecco perché è forte. E pericolosa per l’unità nazionale. di Enrico Farinone

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