I dati che emergono dal dossier statistico sull'immigrazione della Caritas sono assai significativi. In Italia gli immigrati regolari sono oltre quattro milioni e mezzo, tenendo conto delle recentissime regolarizzazioni; quelli con il permesso di soggiorno il 7,2%. Il Veneto è la seconda regione per presenza (11,7%) dopo la Lombardia (23,3%). Le donne sono la metà di questo universo. Un quinto degli immigrati è rappresentato da minori. Gli alunni stranieri, ormai oltre seicentomila, rappresentano il 7% della popolazione studentesca.
Ovviamente l'incidenza più alta si registra nelle scuole elementari (8,3%). Da qui al 2050, orizzonte che può sembrare lontano a noi ma non ai nostri figli, gli stranieri potrebbero essere dodici milioni. E' possibile di fronte a questi numeri affrontare la questione immigrazione nella sola ottica dell'ordine pubblico? O forse è più conveniente mettere l'accento sull'integrazione come produttrice di sicurezza?
Un approccio che negli ultimi tempi fa trasversalmente proseliti. Non è solo la Chiesa a stabilire un preciso nesso tra sicurezza e integrazione, ma anche la politica più avveduta. Come dimostra la convergenza su questioni come il diritto di voto amministrativo e l'accesso alla cittadinanza degli stranieri, tra una sinistra realista e quei settori della destra non contaminati da derive populiste e xenofobe.
Il punto di partenza è ritenere l'integrazione degli immigrati necessaria perché produce non solo crescita economica o finanziamento del welfare, ma anche sicurezza e lealtà politica. Posizione che costituisce un rovesciamento delle logiche securitarie che pulsano in certa destra, che sull'equazione immigrazione-devianza, immigrazione-invasione delle culture altre, ha demagogicamente prosperato. Nonostante non abbia proposto alcuna soluzione al problema e si sia limitata a sfornare, inefficaci quanto pericolose ricette xenofobe. L'accento sulla coppia integrazione-sicurezza sgombera anche il campo dalla retorica del multiculturalismo facile. Un mutamento di prospettiva che depotenzia la rendita politica della Lega.
Sotto il tallone di ferro leghista si è, infatti, imposto in Italia un modello nominalmente assimilazionista, ispirato dalla generica formula «gli immigrati rispettino le nostre leggi e tradizioni». Poco più che uno slogan, corredato da una raffica di divieti. Ne è risultato un assimilazionismo forzoso ma monco: l'assenza di cittadinizzazione lo rende poco appetibile agli immigrati, che dovrebbero rinunciare alle proprie identità, culturali, etniche e religiose, in cambio del nulla. Se in Francia, luogo per eccellenza dell'assimilazionismo, la rinuncia ai particolarismi identitari ha come oggetto di scambio politico la cittadinanza, in Italia si chiede di rinunciarvi a priori e senza discutere.
Un modello, quello imposto dal Carroccio, essenzialmente disciplinare, fondato sullo sguardo di ordine pubblico. Formalmente assimilazionista, il modello disciplinare si regge sullo ius sanguinis che sbarra l'accesso alla cittadinanza allo straniero. Ideologicamente assimilazionista, il modello disciplinare funziona, di fatto, come un modello multiculturalista. Stigmatizzando gli immigrati come portatori di irriducibili e ascrittive differenze etniche e religiose, rinuncia a stimolare qualsiasi interazione che non sia funzionale all'economia, alimentando in tal modo una separatezza che riproduce intoccabili ghetti identitari. Un modello, quello disciplinare, che non garantisce nemmeno la lealtà politica assicurata nei paesi che hanno adottato il modello multiculturalista da quanti ritengono conveniente il patto che lo sorregge.
Questo assimilazionismo senza assimilazione, questo multiculturalismo negato e di fatto riprodotto nella sua versione, priva di vantaggi sistemici, dell'enclave identitaria rancorosa e ostile, rischia di provocare, in un futuro non troppo lontano, seri problemi. Dentro al magma oscurato della segregazione sociale crescono, infatti, più che stranieri, estranei.
Affrontare la questione a partire dal diritto di voto alle amministrative, facendo leva sul principio liberale che stabilisce il nesso tra tassazione e rappresentanza in un paese che pure fa votare anche chi non vi risiede da lungo tempo e paga imposte e tasse altrove, e dall'accesso alla cittadinanza, significa puntare su un modello di integrazione politica. E scommettere che la coesione sociale possa essere meglio garantita dalla condivisione dei principi costituzionali e dalla comune consuetudine alle regole del gioco, piuttosto che dalle richieste di riconoscimento delle specifiche identità nella sfera pubblica o dalla loro negazione a priori. da Il Mattino di Padova
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