Ma allora siamo razzisti anche noi italiani? Noi che abitiamo in un calderone etnico a forma di stivale in cui sono finiti etruschi, celti, cimbri, romani, visigoti, ostrogoti, vandali, alemanni, unni, bizantini, longobardi, arabi, turchi, normanni, francesi, spagnoli, austriaci? Noi che nel calderone, all’alba del boom economico, abbiamo visto un rimescolamento di piemontesi, siciliani, sardi, campani e calabresi?
Ebbene sì, proprio noi, "italiani brava gente", che non abbiamo capito che il pronome "noi" si accompagna con "gli altri". Noi preda delle nostre insicurezze, come del resto tutta Europa: la crisi economica, i marocchini che ci rubano il lavoro, gli islamici che hanno 20 mogli e predicano la violenza, gli scippi, gli stupri, i rom, le nuove povertà, l’uomo nero, i pidocchi e la tubercolosi («che era sparita prima che arrivassero tutti quegli extracomunitari»). Guardavamo a queste cose come al cinema per scoprire che sul set ci siamo noi.
Ce lo spiega Gian Antonio Stella (in foto), firma di punta del Corriere della Sera, fustigatore della classe politica e autore di best seller come La Casta, scritta in collaborazione con Sergio Rizzo. La sua ultima fatica si intitola Negri, froci, giudei & Co. (Rizzoli) ed è una lunga cavalcata nell’impero di Xenofolandia, dove regna la sovrana Paura. La paura che nutre l’intolleranza che, a sua volta, genera il razzismo. Il problema, fa notare Stella mentre freme come un gattone selvatico dietro una scrivania della redazione, il trolley già pronto per il prossimo servizio, è che al mondo non c’è nulla di più internazionale dell’etnocentrismo, di cui il razzismo è il "gemello malvagio" (definizione dello storico George Fredrickson): la sensazione di sentirsi indifesi di fronte all’altro, la paura del nuovo, il vittimismo (un classico della xenofobia).
«Dalla Cina all’America, è sempre la stessa storia. Oltre il cortile di casa, c’è lo straniero», spiega l’inviato del Corriere. Una storia che porta, nei suoi estremi e complice la guerra, fino ai campi di concentramento e ai genocidi. A cominciare dai 22 mila bambini boeri fatti morire di fame e di stenti dagli invasori inglesi del Sudafrica agli inizi del Novecento, fino alle pulizie etniche del nostro tempo. Stella scandaglia gli autoctoni di tutto l’orbe terracqueo, se ne va in giro per epoche, civiltà e terre lontane, per dimostrare che tutto il mondo è paese, che tanta gente si sente l’ombelico del mondo in un mondo in cui ci sono più ombelichi che in un serraglio di odalische. Come quei veneziani di "Venezia Venezia" (ripetuto due volte) che dicono che dopo il ponte della Libertà «xe tuta campagna fino a Parigi».
Non peggio, ma neanche meglio. «Il razzismo è una questione di prospettiva», osserva. «Non si capisce l’ondata di intolleranza se non si parte da qui: i cori negli stadi contro i giocatori neri, il dilagare di ostilità e disprezzo su Internet, il risveglio del demone antisemita, le spedizioni squadristiche contro i gay, le nostalgie di Hitler e l’avanzata in Europa dei movimenti xenofobi».
E allora torniamo a bomba: anche gli italiani? «Gli italiani non sono peggio degli altri, ma non sono neanche meglio». Basti vedere quel che abbiamo combinato con i massacri coloniali di civili al tempo della conquista dell’Impero, ricostruiti dallo storico Del Boca. Senza mai avere avuto sensi di colpa collettivi, senza mai svegliarci dal mito di «italiani brava gente».
Stella ci mette a disposizione gli autori e gli strumenti culturali che hanno smontato la macchina del razzismo, ci libera dalla "iperrealtà" di paure ansiogene per riportarci sulla terra, in un’Italia dove i reati sono diminuiti e gli immigrati delinquono in proporzione meno degli italiani. Oggi che certi discorsi sembrano riecheggiare l’ideale del fanatismo nazionalista: un suolo, un popolo, una religione.
Ma c’è stato un giorno dei nostri giorni recenti in cui ci siamo svegliati e abbiamo scoperto che siamo razzisti? «Mah», risponde Stella, «forse quando Cacciari ha deciso di dare una casa ai sinti, e c’è stata una mezza rivolta di alcuni veneti perché quella era casa loro. Peccato che i sinti si chiamavano Casagrande, Pavan ed erano tutti italiani».
«Il problema», continua l’autore di Negri, froci, giudei & Co, «è che il razzismo si misura nelle situazioni difficili, nelle crisi, nell’incontro con gli altri. Se sei un bergamasco che vivi nel Bergamasco e stai con bergamaschi che mangiano tutti come te polenta taragna, allora è facile non essere razzista. Ma se un giorno arriva la badante ucraina, il meccanico indiano o il cuoco egiziano, le cose cambiano». Un po’ come la storiella del «non sono io che sono razzista, sei tu che sei negro».
Tra Fiona May e Balotelli. Stella fa un altro esempio: «Facile non essere razzisti con la bella Fiona May. Il problema è Balotelli». Balotelli? «Proprio lui: un italiano che si chiama Mario, sa parlare dialetto bresciano, è un campione di talento indiscutibile che vestirà la maglia della Nazionale. Che però ha la pelle nera ed è oggetto degli slogan razzisti più disgustosi. Certo non è simpatico, ha 19 anni e guadagna cifre da capogiro, è un po’ viziato e se vuole esce di casa e si compra una Maserati. Ma avrebbe diritto di giocare spensieratamente. E invece è costretto a farsi carico di una cosa così pesante».
La paura dell’extracomunitario e dell’islamico è diventato un classico della Lega Nord di Umberto Bossi: «Hanno capito che col "terrone" non andavano da nessuna parte. Del resto il Piemonte, la Lombardia e la Liguria ne sono pieni. La sconfitta del Carroccio nel 1997 è stata pesante: Bossi ha capito che con antimeridionalismo e secessione non si combinava nulla. E così si sono scelti un nemico diverso: per l’appunto, lo straniero».
Un nemico per nulla originale. «In effetti, lo straniero è sempre stato preso come nemico. Lo è da millenni, sceglierselo oggi era la cosa più facile del mondo. Scegliersi un nemico, come spiega Umberto Eco, aiuta a darsi un’identità, figuriamoci in un’epoca incerta come la nostra. Da quel momento è stato un crescendo, che ha portato a coltivare tutti i cattivi sentimenti che c’erano nei confronti dell’altro».
Decisione scellerata quella di Bossi, «perché pericolosa. Che tra l’altro ha finito per identificarsi, dopo anni di dio Po, ampolline e altri miti panici, con simboli estranei alla Lega, come il cristianesimo. Mi ha molto colpito la dichiarazione di Castelli che vuol mettere la croce sulla bandiera. Ma come dice Enzo Bianchi, se il crocifisso è solo tradizione, diventa una cosa piccola piccola. Tanto vale, a quel punto, mettere sul tricolore la polenta taragna».
Però ci tiene a precisare: «Non vorrei che si pensasse che il mio fosse un libro antileghista. Tanto è vero che io, che rimprovero molte cose a Bossi, lo difendo a spada sguainata, fino in fondo, quando leggo certi odiosi insulti su Internet che si riferiscono alla sua disabilità».
Seconda avvertenza: non è un libro "buonista": «Non possiamo accogliere tutti. Quando sono nato c’era un italiano ogni quattro africani. Oggi ce n’è uno ogni 15. In mezzo secolo è cambiato tutto. Al mio paese il Bar Sport è finito in mano a dei cinesi bravissimi: stesso Spritz, stesso Merlot, stessi tramezzini. Solo che chi ti serve ha gli occhi a mandorla e dice "Mellot" invece di Merlot e "Spliz" invece di Spritz. Ma se tutti e tre i bar del paese finissero in mano ai cinesi? Be’, forse ci sarebbero dei problemi. Può sembrare una limitazione, ma non c’è alternativa: dobbiamo stabilire delle quote. Però non puoi mandare indietro chi arriva sui gommoni senza chiedergli prima i documenti. Perché magari è un rifugiato politico e se torna in Darfur o in Somalia, muore per le persecuzioni».
Un provinciale europeo. E lo Stella Gian Antonio, come si definirebbe? Lui ci pensa, si liscia il baffo e poi declama: «Sono asiaghese, di razza cimbra. A ragionar come i padani, per me i padani son dei terroni. Il mio cognome è italianizzato da "Stellar", che significa stalliere. L’altopiano dei Sette Comuni, cui appartengo, si è governato per secoli in autonomia, democraticamente. Niente nobili, mai esistito un conte e nemmeno un marchese. Vivo in un piccolo paese, mi piace frequentare bar e botteghe. Dalla provincia vedi con distacco la politica e scopri aspetti essenziali che stando in Transatlantico non scorgi. Non a caso il più acuto osservatore di cose politiche, il sociologo Ilvo Diamanti, vive a Caldogno, Vicenza. Ho vissuto a Roma e a Milano, ho girato il mondo. Sono orgogliosamente europeo. Un provinciale europeo. E non sono disposto a rinunciare a nessuna di queste connotazioni».
Gli squilla il telefonino. La suoneria è la Marsigliese:«Allons enfants de la Patrie...». Provinciale europeo. Suona bene. di Francesco Anfossi
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