Il discorso alla città di Milano tenuto dal cardinale Dionigi Tettamanzi alla vigilia di Sant'Ambrogio ha suscitato, quest'anno, un vespaio di polemiche che non è facile placare. Sono note (e prevedibili) soprattutto le reazioni di parte leghista, anche se alcuni esponenti del Carroccio, tra cui l'eurodeputato e consigliere comunale Matteo Salvini, hanno cercato fin da subito di calmare le acque. Il cardinale non è mai apparso isolato perché tutto il mondo cattolico, non solo milanese, si è stretto intorno a lui. Ma è serpeggiata, nella stampa, l'impressione che egli abbia troppo privilegiato i temi del solidarismo cattolico-progressista, rinunciando al suo ruolo di guida spirituale dei milanesi. E' andata davvero così?
Una delle critiche più pacate rivolte a Tettamanzi (su quelle scomposte non ci sembra il caso di dilungarsi) è che egli dovrebbe sintonizzarsi di più sulla sensibilità dei cattolici milanesi, spendendo parole sulle loro preoccupazioni quotidiane, invece di privilegiare un dialogo con «gli altri», i non milanesi, gli immigrati. Ma qui sta il punto più profondo. Il discorso, fin dall'inizio, è rivolto agli abitanti della città, chiunque siano. E vuole richiamare l'anima più intensa che Milano ha sempre avuto, prima di diventare, dagli anni '80 in poi, la città-simbolo dell'edonismo e della vita mondana: l'istinto solidaristico dei suoi abitanti. Proverbiale per secoli, la «solidarietà ambrosiana» è per Tettamanzi l'eredità spirituale della città.
Ora è disponibile sul sito internet della Diocesi il discorso integrale del 4 dicembre: ognuno può farsi un'idea personale, ma le parole del cardinale non sono equivocabili. Non è vero che Tettamanzi non si sia occupato di solidarietà verso i milanesi in difficoltà. Tutt'altro: ha richiesto una città attenta ai bisogni dei bambini e dei ragazzi (a cui vanno destinate - secondo il cardinale - iniziative ricreative, culturali e scolastiche che ne prevengano il disagio), dei giovani (la città deve offrire risposte alle loro tensioni e, in questo momento, alla loro domanda di forme d'impiego non precarie), delle famiglie (che vivono i drammi dei conflitti, delle separazioni e della povertà), degli anziani (che rischiano la solitudine) e anche, certo, degli immigrati.
Ha fatto molto scalpore il passo in cui Tettamanzi ha citato un episodio di cronaca di fine novembre. Alcune famiglie rom erano state allontanate dal campo di via Rubattino (il più vasto della città) e avevano occupato pacificamente una chiesa periferica chiedendo in particolare che i nuclei familiari non fossero divisi. Il cardinale ha richiamato l'attenzione sull'esigenza che sia salvaguardato l'inserimento scolastico per i bambini di questo gruppo. La sua espressione («La risposta della città e delle istituzioni alla presenza dei rom non può essere l'azione di forza, senza alternative e prospettive, senza finalità costruttive») è stata isolata dal contesto e usata per accusarlo di essere addirittura un comunista. Eppure il porporato aveva appena elogiato chi «si impegna per offrire percorsi di autentica integrazione, per coniugare solidarietà e legalità».
Fuori luogo anche l'accusa di non aver difeso il crocifisso in tempi difficili per questo simbolo dell'Europa cristiana. Fuori luogo per il semplice fatto che Tettamanzi gli ha dedicato la parte finale del discorso, con le seguenti, inequivocabili parole che meritano citazione integrale: «Conserviamo la presenza del crocifisso, simbolo cristiano ma anche simbolo profondamente umano. Di fronte ad esso siamo tutti richiamati ad interrogarci sul significato che hanno il soffrire e il morire, così come possiamo ritrovare la speranza per superare le situazioni di dolore e di morte. Ma il Crocifisso è risorto! Non limitiamoci a considerare il crocifisso come segno di un'identità. Dobbiamo passare dal simbolo alla realtà, alla realtà di Gesù Cristo morto e risorto e veniente, persona viva, concreta, incontrabile, sperimentabile. Conserviamolo questo simbolo, ma soprattutto viviamolo con umile, forte e gioiosa coerenza». di Massimiliano Melley
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