Una piazza di Parigi, nel Nord della città, a due passi dal più celebre mercato delle pulci, quello della Porta di Clignancourt (XVIII arrondissement), ora porta il nome di Jean Baptiste Reinhardt, soprannominato Django (nella foto grande), il padre del gipsy jazz, di cui venerdì 23 gennaio si è celebrato il centenario della nascita.
Arrivò in Francia appena dodicenne, quando i suoi genitori, sinti, parcheggiarono la loro roulotte nella periferia parigina. Era nato appunto in una roulotte il 23 gennaio di cento anni fa, una fredda notte invernale di Liberchies, in Belgio. E, anche quando divenne una star del jazz, continuò a rientrare tutte le sere nella sua roulotte.
Il mondo del jazz ricorda in questi giorni il centenario della nascita di colui che fu il padre del gipsy jazz, il primo ad avere l’idea di accostare gli accordi del jazz con i ritmi della tradizione musicale sinta. Il solo europeo che seppe affermarsi tra tanti americani, Miles Davis, Duke Ellington, John Coltrane o ancora il grande Louis Armstrong.
Ma per i francesi in particolare fu il padre del french jazz. Perchè è Oltralpe che Django creò il suo swing originale, allegro, fatto di improvvisazione e ritmiche dolci. Ed è sempre in Francia che costruì il suo mito, libero, appassionato, senza regole.
Django arrivò in Francia quando aveva 12 anni. Dopo mille vagabondaggi tra Africa ed Europa, la carovana dei suoi genitori, sinti manouche, si era infine fermata nella banlieue parigina. In quegli anni, frequentò i bistrot dove risuonavano le note del valzer Musette e al banjo accompagnò i più grandi accordeonisti degli anni Venti.
Nel 1928, l’incendio della sua roulotte rischiò di mettere fine alla sua carriera di musicista. Django riportò ustioni gravissime alla mano sinistra e i medici furono unanimi nella diagnosi: non avrebbe mai ripreso l’uso delle dita. Ma non conoscevano la sua forza di volontà. Da questo dramma nacque la leggenda: la carriera di Django fu allora folgorante.
Nel 1931, a Tolone, mentre si trovava a casa del pittore Emile Savitry, scoprì un ritmo nuovo, allora quasi sconosciuto in Francia: il jazz. Il passo definito verso la gloria arrivò con l’Hot Club de France, creato da Charles Delaunay e Hugues Panassie alla fine del ’33. Il Quintette, accanto al violinista e complice Stéphane Grappelli, rivoluzionò gli standard degli anni Trenta imponendo gli strumenti a corde, senza batteria.
Sono passati cento anni, ma oggi il jazz di Django torna terribilmente di moda e in Francia sta alimentando una nuova generazione di giovani musicisti. I festival moltiplicano gli omaggi. Intanto, le sue composizioni, da Minor Swing a Nuages, da Manoir de mes reves a Nuits de Saint-Germain-des-Pres, sono diventate dei classici del genere. Un genere tutto suo, in cui qualche volta fanno incursione anche temi di Bach, Debussy o Ravel.
La compilation Generation Django, prodotta dalla Dreyfus Records e distribuita da Egea, raccoglie tutti i grandi interpreti di questa straordinaria tradizione musicale. Non solo il chitarrista Biréli Lagrène, considerato il naturale erede di Reinhardt, ma anche Richard Galliano, Rocky Gresset, Luis Salinas, Valérie Duchâteau, Sylvain Luc, Dorado Schmitt, Florin Niculescu, Brady Winterstein, Hono Winterstein, Gautier Laurent, Adrien Moignard, Marcel Loeffler, David Reinhardt, Babik Reinhardt, Sanseverino, Henri Salvador, Jean-Yves Dubanton, Stéphane Grappelli, Philip Catherine e lo stesso Django. Una incredibile schiera di artisti che rileggono originali di Reinhardt.
Django morì il 16 maggio 1953. Quel giorno, Jean Cocteau disse di lui: «Django morto è come una di quelle dolci fiere che muoiono in gabbia. Visse come sogniamo tutti di vivere: in una roulotte...». di Andrea Cavalcanti
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