Dopo ventisette anni passati a svolgere servizio alla comunità in ambito sanitario, sono infermiere, mi sento, dolorosamente, costretto a spendere due parole sulla questione dei Sinti, che, con grande travaglio, sono alla ricerca di una casa, tra la provincia di Brescia e quella di Mantova.
Io abito nel bel mezzo delle due provincie, quasi sul confine. Nato a Desenzano, da bambino, mi proclamavo, orgogliosamente, desenzanese. Poi, crescendo, mi sono sentito bresciano a lungo, anche dopo essermi trasferito a Castiglione, da circa sei lustri. Oggi, a cinquant’anni suonati, ho risolto sentendomi Italiano. Presto imparerò a sentirmi, pienamente, Europeo. Prima di morire, conto di sentirmi cittadino del Mondo. Questo è il percorso, questo il mio programma.
Osservando i “pazienti”, le persone che soggiornano, per necessità, nel presidio ospedaliero in cui opero, in una postazione di front office, come piace dire al mio primario, ho continue conferme che gli umani non sono poi così diversi tra loro. Quando il quesito diagnostico è “sospetta frattura dello stiloide radiale”, oppure dell’astragalo, od anche delle piccole ossa metacarpali, l’ortopedico capisce subito dove guardare, anche se il paziente è cinese o africano, bianco o nero, maschio o femmina. Non mi è mai capitato di vedere un esquimese nudo, ma non ho dubbi, che steso sul lettino della sala operatoria, sia uguale a tutti gli altri.
Ciò che è diverso è la cultura di cui sono portatori, le loro parole, le loro preghiere: non le conosciamo, non le comprendiamo, e chiediamo loro che imparino ad usare le nostre parole, le nostre preghiere. Non ci basta che rispettino le leggi del nostro stato, devono diventare come noi.
Si sente parlare molto d’integrazione, ma spesso, come percorso, si usano sentieri spianati con le ruspe, e non progetti condivisi.
Questa la premessa. Di seguito riassumo ciò che ho compreso della triste vicenda: sedici persone, italiani di origine sinta, ma italiani, quattro famiglie formate da sette adulti e nove bambini, vogliono acquistare un lotto di terreno nel mantovano, in cui trasferirsi con le loro case mobili. Si tratta di una normale compravendita. Queste famiglie vogliono con tutte le loro forze uscire dalle logiche segreganti e ghettizzanti del “campo nomadi”. Vogliono mettere su casa, come noi gagi, così ci chiamano. La loro casa ha le ruote; un simbolo così importante, per loro, da essere raffigurato nella loro bandiera, che allego come immagine. Il campetto, che pagherebbero attraverso l’accensione di un mutuo ventennale, ha una superficie di circa mille metri quadrati : é sufficiente ad accogliere solamente loro.
Gli adulti lavorano, e i bambini frequentano le pubbliche scuole. Questi “nomadi” hanno scelto di fermarsi. Con il tempo, toglieranno le ruote alle loro case, oppure no, le manterranno come omaggio alla loro bandiera, alle loro tradizioni, ma , a noi, in fondo, che importa: è casa loro! Invece no! Gli amministratori comunali, della cittadina, per impedire che queste famiglie si integrino nella loro comunità, hanno emesso un’ordinanza di divieto di sosta ai nomadi, anche nei terreni privati. Non potranno fermarsi sul terreno di loro proprietà!
Non solo; hanno introdotto, appositamente, una variante al piano regolatore, per impedire che 16 persone possano abitare, tutte insieme, in una superficie di 1000 metri quadrati. Non interessa sapere che si trattino delle famiglie di 4 fratelli.. Voi chiamatelo come vi pare, ma per me si tratta di evidente razzismo, La nostra storia ha già conosciuto le leggi razziali, e ancora ce ne vergogniamo. Noi l’abbiamo, evidentemente, dimenticato, ma loro, i Sinti ed i Rom, ancora ricordano il Porrajmos, “ il grande divoramento” , il tentativo del regime nazista di sterminarli che fece circa 500.000 vittime. Anche in Italia, Rom e Sinti furono imprigionati nei campi di concentramento, e quelli che riuscirono a fuggire si unirono ai partigiani nella lotta di liberazione.
Solo questo volevo dire. Colgo l’occasione per fare i miei più sinceri auguri a queste famiglie, sperando che altri si uniscano a me: auguro loro che riescano a realizzare il loro progetto di una casa vera, con le ruote o senza. Auguro loro di trovare dei vicini civili, che li rispettino come meritano. Auguro ai loro figli di riuscire a custodire le tradizioni che si tramandano da generazioni, e magari, un giorno, di celebrare il matrimonio, secondo i loro costumi, con “la fuga d’amore”, per tornare poi, nella loro bella casa, accolti dalla comunità festante, dimenticando le passate “fughe dall’odio”. Dalla terra di confine, Fiorenzo Avanzi
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