Ieri 11 giugno 2011 papa Benedetto XVI ha ricevuto la delegazione europea delle comunità rom, sinti, manuches, kale, jenish e travellers, in tutto circa 2 mila persone - in occasione di un pellegrinaggio di due giorni a Roma organizzato dal Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, dalla Fondazione Migrantes della Cei, in collaborazione con la diocesi di Roma e la Comunità di Sant'Egidio - si è trattato di una piccola-grande svolta della storia della Chiesa.
Paolo VI li aveva incontrati a Pomezia, in occasione del loro raduno internazionale. Giovanni Paolo II aveva beatificato Zefirino, il primo beato del popolo più europeo d'Europa. I miei amici che facevano scuola ai bambini nel campo, erano a Torbellamonaca quando, sorprendendo la sicurezza, Papa Wojtyla aveva voluto abbracciare i bambini rom. Ma in Vaticano, dal Papa, non erano mai stati ospitati.
Quattro testimoni hanno potuto raccontare che cosa vuole dire essere rom oggi in Europa. Tra questi, Ceija Stojka, deportata ad Auschwitz, memoria vivente delle centinaia di migliaia di rom e sinti che non possono raccontare l'orrore dei campi di sterminio. Mi raccontava Stojka che per i rom, ad Auschwitz non si usava nemmeno il gas zyclon B, perché costava troppo e i bambini rom e sinti non lo valevano.
Diritti umani: lavoro, scuola, cure mediche, alloggio dignitoso. Ruota tutto attorno a queste semplici domande, non fatte al Papa, ma fatte a ciascuno di noi. Perché si accorcino le distanze, si riduca la paura, l'intolleranza, e si cominci a pensare che anche per loro dovrebbero valere le stesse cose che valgono per tutti.
Il Papa non ha paura e indica una strada. Se li riceve a casa lui, forse, possiamo parlarci anche noi, fare un po' di spazio. di Mario Marazziti
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