mercoledì 13 luglio 2011

Milano, le maestre con i letti (per i rom) in cantina

Cristina. È il nome che le torna sulle labbra più volte mentre racconta la sua esperienza di maestra milanese. Flaviana Robbiati (in foto) ha appena tirato due o tre pugni nello stomaco al pubblico della Settimana Internazionale dei Diritti di Genova. È venuta qui con un’altra maestra milanese, Stefania Faggi. A spiegare perché le è stato impossibile voltarsi dall’altra parte mentre le ruspe distruggevano i campi nomadi dove abitava Cristina. Non voltarsi quando vengono calpestati diritti altrui dà, secondo la tradizione ebraica, diritto a quell’appellativo di “giusti” a cui è dedicata la rassegna genovese. Loro sono venute a rappresentare, con altri insegnanti, i “giusti nella scuola”.
“Lo sa lei che cosa vuol dire uno sgombero? Noi sì, l’abbiamo misurato attraverso i nostri alunni rom del Rubattino. Saranno catapecchie in lamiera, ma ognuna è per loro la propria casetta, capisce? Quando arrivano a tirar giù tutto fanno la conta a quintali della spazzatura. Ma quei rifiuti triturati sono pentole, cartelle, quaderni, giocattoli, guardi qui la foto di questa bambola decapitata. A Milano in tre anni hanno fatto 540 sgomberi. Il vicesindaco De Corato li festeggiava pure.
Quando poi il cardinale Tettamanzi chiese di evitare di farli in inverno, di risparmiare la pioggia e la neve e il freddo a quelle creature, il sindaco rispose che la lotta per la legalità non conosceva stagioni. Bella legalità, che ammazza il senso di giustizia. Io dico che negli edifici dove si applica la legge c’è scritto ‘Palazzo di giustizia’, mica ‘Palazzo della legalità’. E di ingiustizie ne abbiamo viste. Sa, noi seguivamo attentamente le vicende del campo. Un mattino seppi che avevano fatto uno sgombero che era ancora buio. Allora spiegai tutto agli altri alunni, chiesi loro di non farlo pesare a Cristina. Cristina arrivò a scuola chiedendo che i compagni non sapessero nulla, con gli occhi bassi, per la vergogna di quel che le era successo. In classe furono bravissimi, perché per fortuna i compagni di scuola e le loro famiglie ci aiutavano molto a creare un clima di amicizia e la invitavano alle feste”.
Ha un viso lungo e scavato, Flaviana, gli occhiali dorati poggiati su un naso magro e impertinente. Stefania ha i capelli scuri, è solo all’apparenza più severa. “Quel giorno”, continuano, “quel 19 novembre, ci arrivarono a scuola alle quattro del pomeriggio tutti i genitori degli alunni rom del distretto, quasi una quarantina ne avevamo. E ci chiesero di aiutarli a dormire. Facemmo subito le telefonate, Sant’Egidio, la Casa della Carità, le parrocchie, e alla fine ne prendemmo qualcuno in casa nostra. Riuscimmo a sistemarli quasi tutti. Il fatto vero però è che questa guerra ai rom toglie a dei bambini un diritto elementare: quello di andare a scuola. È andare a scuola, secondo lei, doversi rifare i quaderni ogni mese, trovarsi senza casa decine di volte all’anno, perché questi sono i numeri di Cristina, oppure dovere cambiare otto scuole in un anno come è capitato a Samuel, o metterci due ore a piedi tra i campi ghiacciati, come è successo a Giulia che voleva restare nella sua classe? È andare a scuola con la serenità necessaria venire staccati come figurine dal padre o addirittura dalla madre a sei anni? Per questo noi diciamo che i bimbi rom sono bimbi come gli altri, ma contemporaneamente che sono un po’ meno bambini di tutti. Perché per loro vivere la normalità non è normale. Si sentono sempre in colpa. Vuole sapere la storia di Ulisse, che arrivò a scuola ricoperto di sputi? Era stato un signore dalla sua macchina. Appena lo ha visto, aveva tirato giù il finestrino e l’aveva trasformato in un bersaglio”.
Stefania e Flaviana, scuole diverse ma stesso circolo didattico, quello di via Pini, zona est della città, non si fermerebbero mai nel loro racconto. D’altronde se c’è qualcuno che ha presidiato le frontiere della civiltà nell’Italia ubriaca di pregiudizi e di razzismo sono loro. Loro che appena fiutavano l’aria di sgombero facevano lasciare le cartelle a scuola o preparavano materassi nelle loro cantine. “Ma lo sa che alcuni di questi bambini vivono perfino sotto terra? Pensi quanto è grottesco: li bocciano a volte per le troppe assenze, quando sono proprio gli sgomberi a catena che gli impediscono di venire a scuola. Eppure si impegnano, sa? Cristina sapeva solo il romans e il rumeno. Ora è andata a vivere in una casa in un altro paese, anche se i suoi compagni continuano a invitarla alle feste, ed è stata promossa in prima media quasi con la media dell’8. Ha studiato e imparato. Noi lo ripetiamo a ogni incontro: lasciarli analfabeti è come compiere una pulizia etnica. Perché se tu non sai la lingua non leggi neanche la medicina, non leggi la pagella di tuo figlio, resti letteralmente senza diritti. Che è la più grande povertà: non potere accedere ai diritti, non sapere nemmeno di averli. Per questo un giorno abbiamo scritto loro una lettera per rivederli l’anno dopo a scuola”. Dice così quella lettera: “Vi insegneremo mille parole, centomila parole, perché nessuno possa più annientare le vostre voci”.
“Se abbiamo dei progetti? Certo che li abbiamo. Borse-lavoro, progetti sanitari, la promozione anche del vino e del pane rom. Ma quali soldi, non abbiamo niente. Piuttosto, sa che cosa ci sembra un po’ orribile? Di essere diventate note perché difendevamo i bambini. Ma perché, non sta scritto ovunque che bisogna difenderli? E invece per qualcuno siamo un po’ uno scandalo. Ma come, si chiedono, come è possibile che della gente si voglia tenere gli zingari?”. da Il Fatto Quotidiano

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