Ricordate? Metà maggio del 2008,
sabato mattina, una stradina di Ponticelli. Poi: la ragazzina
arrestata per sequestro di persona, la rabbia popolare, l’espulsione
di oltre ottocento rom dal quartiere orientale. E ancora: un giudice
che non scarcera Angelica, perché di «etnia rom», quindi incline a
compiere delitti analoghi», la sentenza definitiva e il suo caso
diventa un primato da giurisprudenza: una ladra di bambini, l’incubo
metropolitano messo su carta bollata, con tanto di firma di un
giudice.
Un caso chiuso. Quattro anni e mezzo
dopo, Angelica si racconta. È stata scarcerata da poco, proprio
negli stessi giorni in cui a Ponticelli venivano arrestati alcuni
presunti camorristi che «con odio razziale» incendiavano i campi
rom (storia del 2010) per impedire che i piccoli zingari
frequentassero le scuole del quartiere. Storie simili, anche secondo
Angelica Varga, che su una panchina del centro di Napoli si racconta:
«Desidero cose elementari: la verità, poi un lavoro qui a Napoli,
una famiglia, l’integrazione. Ma anche una cultura
dell’integrazione a Napoli, che - come la mia storia insegna - non
esiste ancora».
C’è una sentenza, una verità giudiziaria, lei ha rapito una bambina in fasce, punto. Qual è la sua versione?
«Ero a Napoli da un mese e mezzo, ero da poco arrivata da Bistrita (Transilvania, Romania), la mia città natale. La mattina uscivo con una mia amica di poco più grande, che faceva piccoli sbagli. Mi portò con lei in una casa, voleva rubare qualche oggetto di valore. Facemmo appena in tempo a salire una rampa di scale, che venimmo bloccati da un uomo. La mia compagna riuscì a scappare, io finii in cella. Non parlavo italiano, ma ero tranquilla, mi dicevo: non ho portato via niente, ora mi rilasciano. Invece, quindici giorni di cella e ho capito: sequestro di persona, rapimento, stavo impazzendo».
Eppure, lei in quella stanza ci è entrata. Ha accarezzato quella bimba nel carrozzino, l’ha abbracciata?
«Mai. Non l’ho neppure vista quella bambina. Non siamo entrate in casa, non ci riuscimmo. Facemmo appena in tempo a salire una rampa di scale che fummo bloccate, la mia compagna scappò via, io rimasi lì senza immaginare cosa mi sarebbe toccato vivere».
Poi, mentre lei era in cella, a Ponticelli è scoppiato il finimondo: un quartiere in fiamme, raid incendiari, un popolo in fuga. Venne a sapere cosa stava accadendo?
«Lo seppi in cella, me lo dissero le altre ragazze, che provavano a sostenermi. È stato orribile e assurdo. Sono stati espulsi tutti, in una notte è stato spezzato il progetto di integrazione che tante famiglie avevano intrapreso. Non c’erano solo ladri in quegli accampamenti, ma anche ragazzi che andavano a scuola, c’era mio fratello, i miei parenti: via tutti, dalla notte al giorno. Hanno trovato una scusa orribile per cacciarci, per allontanarci. E io sono stata quattro anni e mezzo in cella».
Un mese fa sono stati arrestati alcuni presunti camorristi di Ponticelli: per «odio razziale» hanno scatenato incendi nel 2010, non volevano gli zingari a scuola dei loro figli.
Ripetiamo: per i giudici lei è responsabile di quel rapimento, la sentenza è definitiva, se potesse incontrare la mamma della bimba rapita per pochi minuti, cosa le direbbe?
Cosa fa da quando è libera?
«Voglio ringraziare i miei legali, gli avvocati Liana Nesta e Cristian Valle che hanno creduto in me e hanno provato a difendermi anche contro i pregiudizi. Ho trovato attorno a me tanta solidarietà, ora provo a ripartire. Ho vent’anni, vorrei un lavoro (so fare la parrucchiera), una vita normale da cittadina napoletana. Nel frattempo, quando posso, faccio anche un po’ di volontariato».
In che senso?
«Parlo bene italiano, spesso mi reco in alcuni campi rom dell’hinterland assieme ad altri volontari, dove cerco di svolgere un ruolo in un più ampio progetto di integrazione».
È andata anche a Ponticelli?
«No, lì non sono mai tornata. Mi fa troppo male rivedere quei posti, per anni ho rivissuto dentro di me quella scena, quel cancello che si apre, gli scalini, l’uomo che mi afferra il braccio, qualcuno che mi chiede di firmare carte che ho fatto bene a non firmare: perché io quella piccola nel carrozzino, non l’ho neppure vista una volta in vita mia»
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