Come affrontare la sfida della
convivenza tra differenti culture? La soluzione può essere cercata
in una coesistenza senza convivenza per evitare lo scontro tra realtà
inconciliabili o l’integrazione, che però mira a una società
omogenea e che, inevitabilmente, presuppone una cultura che integra e
una che è integrata? La questione è stata affrontata da Gustavo Zagrebelsky il 5 febbraio 2007 in uno degli appuntamenti dei Lunedì dell’Accademia della Carità. Secondo Gustavo Zagrebelsky la
possibile risposta è l'interazione, vale a dire nella volontà di
culture differenti a entrare in rapporto per definire sé stesse e,
al tempo stesso imparare l’una dall’altra per costruire insieme.
Multiculturalismo è un termine
comparso per la prima volta nel 1982, nella Carta dei Diritti delle Libertà del Canada. Parola nuova, quindi, ma che ormai ha investito
il mondo occidentale nel suo complesso, sotto la pressione crescente
dell'immigrazione da Paesi lontani. Non è il pluralismo con il quale
le società europee dall'inizio del secolo scorso hanno dovuto fare i
conti e del quale, sia pure talora a caro prezzo, sono riuscite a
venire a capo.
Le società pluralistiche sono composte
di parti che si riconoscono in un tutto come suoi elementi
costitutivi. Un tutto che viene da una storia talora lontana o molto
conflittuale, ma pur sempre comune. Le parti possono esprimere punti
di vista diversi e avere interessi materiali concorrenziali, ma non
antagonisti al punto da essere disposti al conflitto quando esso
potrebbe avere esiti distruttivi per tutti.
Nel contesto pluralista il quadro
unitario di riferimento generale non è messo in discussione; la
garanzia del pluralismo risiede nelle interdipendenze e nelle
reciproche debolezze.Non così il multiculturalismo, in quanto le
differenti culture si presentano come sistemi di valori e visioni del
mondo chiusi, ciascuno in sè sufficiente a fornire il quadro etico
completo e totalizzante dell'esistenza dei suoi membri. Potrebbe
dirsi che il pluralismo tenda a un orizzonte di senso comune, mentre
il multiculturalismo no.
Siamo quindi di fronte a una sfida cui
proprio l'Europa è impreparata per ragioni di storia e di cultura.
Nel secondo millennio sono stati perlopiù i popoli europei a
occupare territori di altri continenti, abitati da popoli di altra
cultura. Con questi non hanno cercato una convivenza multiculturale,
ma semplicemente li hanno spazzati via o li hanno confinati nello
spazio di qualche riserva, destinati a estinguersi.
L'impreparazione genera paura, la paura
confusione delle idee e incertezza, e nell'incertezza trovano spazio
razzismo e xenofobia. Quello della formazione di una società a
culture plurime è un problema che sta alla base delle questioni del
nostro tempo e di quelli a venire. Occorre riflettere per agire,
sapendo che questa è una sfida al nostro vivere civile alla quale
non è possibile sottrarsi.
Una sfida inevitabile
Culture e civiltà estranee, concetti
così pregni di significato non meramente geografico: Oriente e
Occidente, Nord e Sud del mondo, che l'Europa stessa ha contribuito a
definire in due millenni e mezzo di geopolitiche di potenza, sono in
movimento. È all'opera la forza più elementare, diffusa e capillare
e perciò meno contenibile: quella della miseria e l'istinto di
sopravvivenza.
Fino a pochi anni fa l'immigrazione
verso l'Europa è stato un capitolo dei rapporti fra alcuni Stati e
le loro ex colonie, oppure un effetto del miracolo economico di
alcuni Stati. In passato le politiche statali governavano
l'immigrazione nell'interesse delle economie nazionali, oggi i
fattori degli spostamenti di popolazioni sono più profondi di quelli
su cui la politica statale ha sovranità. Finché rimarranno attivi,
le quote d'accesso e le limitate sanatorie degli irregolari saranno
patetiche finzioni di una capacità regolatrice che è andata
perduta.
L'emigrazione Sud-Nord ed Est-Ovest è
un doloroso riequilibrio di profondi squilibri politici, economici,
demografici e ambientali di dimensione mondiale: guerre,
sfruttamento, povertà, fame e malattie, esplosione demografica,
trasformazioni climatiche e degrado ambientale convergono nella
disperazione di intere aree sub continentali alimentando il movimento
verso i Paesi del ricco Occidente che offrono prospettive o miraggi
di sopravvivenze. Se consideriamo che gran parte di quelle cause, per
qualche aspetto, dipendono dall'aggresività delle società che
abbiamo costruito, o dal difetto di adeguate politiche di
solidarietà, possiamo in questo persino riconoscere una giustizia,
un contrappasso o una domanda di risarcimento. La concreta
disponibilità ad accogliere, può non essere proporzionale alle
dimensioni della domanda, ma il "buttiamoli a mare" che
talvolta esce dalla bocca di qualche xenofobo è un'ingiustizia su
un'altra ingiustizia rivestita di ributtante amor di patria.
Alla ricerca di un confronto
Con i popoli che vengono da lontano e
le loro culture dobbiamo perciò confrontarci per necessità e anche
per giustizia. Il multiculturalismo è una sfida all'universalismo,
un pilastro della concezione morale dell'Occidente. Il
multiculturalismo invece pretende che le concezioni morali dipendano
da determinate visioni del mondo, ognuna ugualmente valida dal
proprio punto di vista. Per conseguenza, esso deve ammettere che
possano esserci modi diversi di agire giusto e che ciò che è giusto
per me che appartengo a una cultura possa essere assurdo per te che
appartieni a un'altra.
Ma il multiculturalismo è anche una
sfida all'individualismo. I diritti umani della tradizione
occidentale, almeno dal Rinascimento in poi, sono principalmente i
diritti degli individui, secondo la concezione liberale, o delle
persone, secondo la concettuologia cattolica. I diritti delle
comunità sono riconosciuti, ma vengono dopo, come espressione di
diritti di chi volontariamente ne fa parte. Se nasce un dissidio, per
l'Occidente è la libertà del singolo che prevale sulla compattezza
del gruppo, non viceversa. Le appartenenze religiose, culturali e
politiche devono quindi sempre essere volute o almeno accettate, non
essere un dato della natura, della nascita o del destino.
Considerando i singoli non come
individui, ma solo come parti di comunità, si rovescia questo
rappporto fino a giustificare la prepotenza del gruppo sui suoi
componenti. Si comprende che legge universale e primato
dell'individuo possano essere due elementi caratteristici della
nostra dimensione morale e possono essere accusati di giustificare
politiche aggressive. La legge universalmente giusta chiederà di
imporsi anche a chi non la riconosce come tale. Così, dietro la
maschera, si scorge il volto della violenza imperialistica, perfino
della guerra di civiltà distruttrice di cultura e di civiltà
diverse. Inoltre, il primato dell'individuo, abbattendo le barriere
culturali comunitarie da cui gli individui di gruppi più deboli sono
pur sempre protetti, può creare quella superficie tutta liscia sulla
quale scorre l'esercizio di un potere illimitato, azzera le
differenze e omologa gli esseri umani in una informe umanità.
È tuttavia impossibile rinnegare
l'universalismo e l'individualismo senza rinnegare la nostra stessa
civiltà. Per adeguarci alla società multiculturale rinunceremmo noi
per primi alla nostra cultura e, per non usare violenza agli altri,
faremmo della nostra stessa cultura un uso suicida. Il dilemma del
multiculturalismo allora deve forse formularsi in questi termini: se
siamo condannati all'aggressività, ovvero se vi sia un modo per
liberarci dal veleno annidato nel nostro modo di auto rappresentarci
come civiltà occidentale universalistica e individualistica.
Separati, integrati o interagenti?
Il banco di prova di questa terribile
questione sono gli atteggiamenti di fronte alle comunità di altra
cultura, atteggiamenti tutti riconducibili a queste tre idee:
separazione, integrazione e interazione. Tutte e tre esprimono
l'accettazione più o meno di buon grado di una società che ospita
genti di culture e civiltà estranee, ma divergono profondamente sul
modo di concepirle. Solo l'ultima, l'interazione, viene incontro
all'esigenza di una convivenza al tempo stesso rispettosa dell'altro
e non rinunciataria di fronte a sé stessa.
La separazione è una coesistenza senza
convivenza. Il pregiudizio del separatismo è che le culture siano e
debbano essere identità spirituali chiuse e che le relazioni
interculturali nascondano di per sé pericoli di contaminazione o
contagio alla purezza dell'identità culturale. Popolazioni diverse
vengano dunque, se proprio non si riesce a fermarle alla frontiera o
ci è utile accoglierle in quote, ma stiano per conto loro.
Questa posizione si è espressa nel
motto "separati ma uguali" che per quasi 100 anni ha
regolato i rapporti tra bianchi e neri negli Usa. In teoria il
pregiudizio separatista potrebbe condividersi perfettamente da
entrambe le parti, autoctoni e migranti ed esser così un'ideologia
simmetrica. In pratica tuttavia quando una parte (l'autoctona) è più
forte dell'altra (la migrante), la separazione si butta in
segregazione, cioè in violenza discriminatrice. Ma la
discriminazione non ha bisogno di norme giuridiche, bastano le leggi
dell'economia di mercato, le mentalità piccolo borghese a creare
esclusioni, segregazioni, barriere invisibili, ma ferree, tra persone
e luoghi.
L'integrazione mira alla società
omogenea, in cui le differenze culturali si attenuino fino a
scomparire. Il suo presupposto è che con la seduzione o con la forza
le culture possano cambiarsi confluendo l'una nell'altra.
L'integrazione non è ostile all'ingresso, ma rinvia la dinamica tra
una cultura che integra e una che è integrata, cioè ad una
asimmetria tra l'una, più vitale e l'altra, considerata meno vitale.
L'integrazionismo è così fatalmente ideologia della cultura
dominante e prima o poi manifesta la sua vera natura che non è
l'integrazione, ma l'assimilazione.
L'assimilazionismo, presupponendo la
superiorità di una cultura sulle altre, è una versione mite di
razzismo culturale che giustifica la pretesa di fagocitare culture
recessive e così di cancellarle dalla faccia della terra o al più
di lasciarle sopravvivere come folklore. Ma può tradursi anche in
azione violenta. Se la cultura diversa non è integrabile, o si dice
che così sia, (come accadde nella Germania nazista per ebrei o oggi
per le comunità islamiche), la società omogenea si sente
autorizzata a praticare politiche di segregazione e perfino di
annientamento.
L'integrazionismo si traduce in
atteggiamenti pratici opposti a quelli separatisti, esso mira alla
distruzione delle comunità diverse e alla riduzione dei loro membri
a soli individui sradicati per poterli così più facilmente
assorbire. C'è però un paradosso o una contraddizione: integrazione
è parola d'ordine delle comunità organiche culturalmente omogenee.
Si può essere contro le comunità quando si parla d'altri e non
quando si parla di sé? Mi riferisco alla legislazione francese:
combatte il pericolo del cosiddetto mosaico culturale (cioè la
presenza di tante comunità chiuse) ma finisce per proporre un quadro
culturale a tinta unica.
L’interazione come formula di
convivenza
Infine, l'interazione. Il postulato
dell'interazione è la necessità delle culture di entrare in
rapporto per definire se stesse rispetto alle altre e quindi
difendersi dalla mera assimilazione. Ma al contempo è la
disponibilità a costruire insieme e a imparare l'una dall'altra. In
questa disponibilità a rinnovarsi apprendendo gli uni dagli altri,
c'è il contrario del separatismo e dell'integrazionismo.
L'ethos dell'interazione è
anti-fondamentalista, ma non relativista. Per avere interazione non
basta la tolleranza: occorre che nessuno assuma il monopolio di
verità possedute una volta per sempre. Una concezione non
cristallizzata della cultura comporta soprattutto che diverse
comunità, all'esterno siano aperte al confronto e al mutamento per
reciproca confluenza, all'interno rispettino la soggettività dei
propri membri e il diritto di decidere autonomamente di restarvi o di
uscirne.
Così l'interazione è l'unica risposta
alla sfida del multiculturalismo conforme ai due pilastri della
cultura occidentale: universalismo e individualismo. Universalismo
non come imposizione generalizzata di una cultura egemone, ma come
apertura al dialogo in libertà, verità e giustizia in vista della
costruzione di una dimensione universale della vita in comune.
Individualismo non come sradicamento, ma come priorità della
coscienza degli esseri umani sulle appartenenze culturali di nascita
e di destino. Così potremmo rimanere fedeli a noi stessi e
scrollarci di dosso l'aggressività che spesso è addossata
all'Occidente come una delle sue colpe maggiori.
Una simile prospettiva presuppone
atteggiamenti di reciprocità amichevole che non possono affatto
essere dati per scontati. Si tratta di riconoscimenti di rispetto gli
uni verso gli altri. Noi, comunità di accoglienza, abbiamo le nostre
difficoltà spesso frutto di pregiudizi sedimentati nel tempo e
talora sfruttati politicamente. Ma anche le comunità che vengono da
lontano hanno le loro difficoltà: per esempio quella che riguarda
una parte dell'immigrazione islamica e che è stata definita come la
"sindrome del perdente assoluto". Cioè consapevolezza di
provenire da grandi civiltà, e quindi dell'orgoglio di appartenervi,
che collimano con l'evidente mancato attuale riconoscimento del loro
valore nell'ambiente di arrivo. Senza contare lo shock culturale
permanente. Persone che si considerano "perdenti assoluti"
costituiscono una bomba sociale.
Non rimane quindi che tentare di
gettare ponti culturali, promuovere occasioni di conoscenza reciproca
e di confronto. Prima di tutto da parte delle comunità di
accoglienza, abbandonando l'atteggiamento di chi si considera dalla
parte della civiltà e non sa riconoscere il valore altrui insieme ai
propri limiti. Un lavoro a lungo termine difficile, ma ineludibile.
L'interazione delle culture è essa stessa cultura, una metacultura
ricca di tutti i contenuti della convivenza: rispetto reciproco,
apertura, curiosità e attenzione per le diversità, spirito di
uguaglianza e accoglienza, calda fratellanza nelle difficoltà della
condizione umana.
Tutti i numerosi e complessi problemi
che oggi si pongono alla politica nei suoi compiti regolativi di
convivenze e di culture diverse si prestano a essere illuminati da
questa concezione dell'essere cultura dell'occidente. È solo un
punto di partenza; l'interazione tra culture, assunta come obiettivo
da perseguire, non nasconde l'esistenza di "irrinunciabili"
da porre sotto il dominio della legge comune. Irrinunciabili non
perché lo sono per noi, ma perché attengono alla sfera dei diritti
umani, in qualunque parte del mondo.
Questi irrinunciabili quali sono? Direi
anzitutto il divieto della violenza, la libertà nella vita
comunitaria, il divieto di discriminazione tra uomo e donna. Il tutto
però deve essere inevitabilmente oggetto di discussione e confronto
e alla fine responsabilità della politica e non si presta a essere
dedotto da una astratta formula di convivenza.
Nessun commento:
Posta un commento