sabato 9 dicembre 2017

Fondazione Romanì, la parola «povertà» non basta a spiegare ogni problema

Nel dibattito che si sta svolgendo sull'approccio che le politiche pubbliche dovrebbero attuare nei confronti delle persone appartenenti alla minoranza linguistica sinta e rom che vivono in stato di povertà, in maggioranza nei cosiddetti “campi nomadi” entra la Fondazione Romanì Italia, guidata da Nazzareno Guarnieri, con una replica al post di Carlo Stasolla firmata insieme al prof. Giovanni Agresti.

L’articolo di Carlo Stasolla pubblicato su Il Fatto quotidiano del 5 dicembre 2017 «Rom, una parola non basta a definire 22 comunità diverse» ha due meriti fondamentali: 1) mette in guardia contro chi sfrutta la questione rom per trarre vantaggi economici; 2) informa un pubblico verosimilmente vasto e non specializzato circa l’indubbia complessità del mondo rom e – aspetto spesso ignorato dai più – il suo antico insediamento in Italia (XIV secolo).

La disinformazione prepara il terreno al pregiudizio e alle scorciatoie del pensiero, come quando – aggiungiamo noi – viene posta dall’opinione pubblica la (frequente e molto discutibile) equivalenza tra “rom” e “romeni” o tra “rom” e “nomadi”. Sappiamo quanto le generalizzazioni siano, in qualsiasi contesto, delle mortificazioni, spesso esiziali, della realtà, e come, nello specifico contesto della comunità romanì, contribuiscano a compromettere il già difficile dialogo sociale.

Detto questo, frammentando la minoranza romanì in «107 condizioni socio-culturali differenti» ed enfatizzando la diversità di «dialetti, religioni, tradizioni», Stasolla finisce per cadere nell’eccesso opposto, aprendo da un canto la via ad altre forme di pregiudizio in merito alla possibilità stessa di ammettere l’esistenza, in Italia, di una comunità romanì dotata di una cultura e di una lingua sufficientemente unitarie; e, dall’altro, depotenziando legittime rivendicazioni di ordine culturale, già molto osteggiate dalla nostra classe dirigente.


Mi riferisco in particolare all’istanza, formulata anche da una parte rappresentativa e qualificata della comunità romanì, e alla quale ho dato un personale contributo, della pur tardiva applicazione, anche per i rom, di uno dei principi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana, l’articolo 6: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche».

Gli argomenti di Stasolla sono più che discutibili: quando afferma che «una parola non basta a definire 22 comunità diverse», il Presidente dell’Associazione 21 luglio propone al lettore argomenti che, in realtà, potrebbero essere estesi ad altre minoranze linguistiche storiche del territorio italiano: quali comunità linguistiche minoritarie non sono in effetti rappresentate, in vari gradi, «da culture fuse e compenetrate con tipicità delle popolazioni locali, da cui sono scaturite mescolanze, contaminazioni, strategie di visibilità o mimetizzazione»?

Pensiamo alle comunità linguistiche franco provenzali, caratterizzate da un’eccezionale variazione linguistica sia in area alpina (a cavallo di Italia, Svizzera e Francia) sia in area periferica, quei due straordinari comuni incastonati nei Monti Dauni in provincia di Foggia, Faeto e Celle di San Vito, dove sopravvive dopo sette secoli una varietà di francoprovenzale alquanto mescolata con le parlate locali (lessico, fonetica e sintassi).

O pensiamo alle cinquanta comunità di lingua arbëreshe (italo-albanesi), sparse per il meridione insulare e peninsulare: benché dotate di forti simboli unificatori (su tutti, il condottiero Skanderbeg, eroe nazionale albanese e “paladino della Cristianità”), in queste comunità la lingua minoritaria è molto variamente parlata dalle popolazioni locali, come anche variano nel loro seno i sentimenti linguistici e il senso d’identità – alquanto misto tra l’appartenenza allo Stato italiano, il ricordo della madrepatria albanese e la consapevolezza di un’identità arbëreshe comunque irriducibile tanto all’una quanto all’altro.

Se poi parliamo di tradizioni, stupirà come la bevanda tradizionale di una di queste cinquanta comunità italo-albanesi, Lungro (CS), sede dell’Eparchia degli italo-albanesi d’Italia, sia il… mate argentino! dovuto a fenomeni migratori più recenti che portarono molti lungresi a stabilirsi nel continente sudamericano. Ma gli esempi di questo tipo sono innumerevoli.

La verità è che la storia di ogni comunità cosiddetta «etnica» è fatta di mescidazioni, contaminazioni, stratificazioni, disseminazioni, e le varietà linguistiche riflettono questa dinamica che è semplicemente naturale.

In Europa solo il popolo basco può vantare due caratteristiche singolari: una lingua di origine non indoeuropea e, come affermato da Luigi Luca Cavalli Sforza, specifiche caratteristiche a livello di gruppo sanguigno (elevata incidenza del fattore Rh negativo) che possono spingerci a pensarlo come uno dei popoli più antichi del Vecchio Continente.

Quanto a noi, è la stessa nozione di Italia e di italianità che dovrebbe suggerire quanto complesso sia il tessuto sociale, culturale, linguistico e persino economico di un Paese de jure unitario. Senza scomodare, come infelicemente fa Stasolla, «il dottor Mengele», ricorderò come una recente ricerca italiana, pubblicata su un’autorevole rivista scientifica internazionale, dimostri come il nostro paese sia uno dei più ricchi in termini di diversità linguistica e genetica di tutta l’area del Mediterraneo[1]. Dobbiamo per questo dedurne, sulla scia di Fabrizio Rondolino, che «l’Italia non esiste?». Direi proprio di no.

In sintesi, così come, a proposito delle comunità di minoranza linguistica, non si deve indulgere né alla «cartolina» né al folklorismo, cioè alle rappresentazioni stereotipe ed etnotipiche, non bisogna neanche scadere in un relativismo che azzeri ogni tratto identitario risolvendo, nel caso specifico, i problemi del mondo rom alla sola questione economica, come propone Stasolla in chiusura del suo articolo.

Non ho fatica a ritenere che non tutto passi per il denaro, e che l’ostracismo di cui è vittima la minoranza romanì, soprattutto in Italia, dev’essere interpretato anche in chiave sociale e culturale.
Quel che è veramente importante è non contrapporre le azioni urgenti (il soccorso incondizionato a chi vive in situazioni precarie e pericolose per la propria e altrui incolumità) alle azioni sul medio e lungo periodo, quali sono per l’appunto le azioni di sviluppo sociale e culturale, generalmente silenziose e poco spettacolari ma molto spesso tanto più incisive.

Ripartiamo quindi dal nucleo fondativo della nostra comunità, la Costituzione, ed estendiamo alla minoranza romanì la tutela che altre dodici minoranze linguistiche d’Italia si sono viste riconoscere con la legge statale n. 482 del 1999 («Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche») e con diverse leggi regionali.

La proposta di legge depositata dall’On. Gianni Melilla e da altri venti parlamentari[2] è di natura patrimonialista e non droitdelhommiste e non prevede alcun «diritto speciale» per i rom, come paventa Stasolla. Si tratta di una proposta volta unicamente all’applicazione dell’art. 6, al riconoscimento cioè da parte dello Stato italiano della minoranza romanì come minoranza linguistica di antico insediamento.

Si dirà che questo riconoscimento è ben poca cosa rispetto alle urgenze del mondo rom, ma in realtà potrebbe nel tempo contribuire a migliorare di molto i rapporti tra la comunità di minoranza e il potere centrale: attraverso un patto di reciproco riconoscimento; il rispetto dei principi costituzionali e la conseguente simbolica riparazione storica delle violenze subite dai rom durante la Seconda Guerra mondiale; l’incentivo allo studio della lingua e alla sua codificazione (non rigida ma “polinomica”, secondo il modello còrso, tollerante cioè delle variazioni dialettali), anche in forma scritta; la disalienazione culturale, il recupero della memoria storica e la conseguente riparazione del processo, degradante, di auto-odio.

Questi sviluppi virtuosi non risolveranno subito tutti i problemi di disagio e devianza, ma daranno un loro contributo, peraltro ben poco oneroso, a migliorare le condizioni di esistenza della comunità romanì. E, contrariamente a quello che molti credono, è la comunità stessa di minoranza ad aver formulato questa istanza di riconoscimento e standardizzazione del romanés, come ho potuto verificare a valle di una recente ricerca sulle rappresentazioni sociali della lingua dei rom e dei sinti in Italia[3].

Anche se chi non ha casa né cibo chiaramente ci chiederà una casa e del pane, non è mai vero che le questioni culturali e legate all’identità sono accessorie o marginali. Per il mondo rom, sovradeterminato da ogni tipo di pregiudizio negativo, questo è ancor meno vero.

Fondazione Romanì Italia e prof. Giovanni Agresti


[1] Capocasa et al. 2014. «Linguistic, geographic and genetic isolation: a collaborative study of Italian populations», Journal of Anthropological Sciences, vol. 92, pp. 1-32.

[2] Proposta di legge ordinaria 3162 a firma di Gianni Melilla et al., « Modifiche alla legge 15 dicembre 1999, n. 482, e altre disposizioni in materia di riconoscimento della minoranza linguistica storica parlante la lingua romanì».
www.camera.it/leg17/126?tab=8&leg=17&idDocumento=3162&sede=&tipo=

[3] Agresti, G. 2015a. Le rappresentazioni sociali del romanés. Un’inchiesta sulla lingua dei rom e dei sinti in Italia. Presentazione di Luciano D’Amico, Gianni Melilla. Postfazione di Pierfranco Bruni. Roma: Aracne («L’essere di linguaggio», 3).

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