Nel dibattito che si sta svolgendo
sull'approccio che le politiche pubbliche dovrebbero attuare nei
confronti delle persone appartenenti alla minoranza linguistica sinta
e rom che vivono in stato di povertà, in maggioranza nei cosiddetti
“campi nomadi” entra la Fondazione Romanì Italia, guidata da Nazzareno
Guarnieri, con una replica al post di Carlo Stasolla firmata insieme al prof. Giovanni
Agresti.
L’articolo di Carlo Stasolla
pubblicato su Il Fatto quotidiano del 5 dicembre 2017 «Rom, una parola non basta a definire 22 comunità diverse» ha due meriti
fondamentali: 1) mette in guardia contro chi sfrutta la questione rom
per trarre vantaggi economici; 2) informa un pubblico verosimilmente
vasto e non specializzato circa l’indubbia complessità del mondo
rom e – aspetto spesso ignorato dai più – il suo antico
insediamento in Italia (XIV secolo).
La disinformazione prepara il terreno
al pregiudizio e alle scorciatoie del pensiero, come quando –
aggiungiamo noi – viene posta dall’opinione pubblica la
(frequente e molto discutibile) equivalenza tra “rom” e “romeni”
o tra “rom” e “nomadi”. Sappiamo quanto le generalizzazioni
siano, in qualsiasi contesto, delle mortificazioni, spesso esiziali,
della realtà, e come, nello specifico contesto della comunità
romanì, contribuiscano a compromettere il già difficile dialogo
sociale.
Detto questo, frammentando la minoranza
romanì in «107 condizioni socio-culturali differenti» ed
enfatizzando la diversità di «dialetti, religioni, tradizioni»,
Stasolla finisce per cadere nell’eccesso opposto, aprendo da un
canto la via ad altre forme di pregiudizio in merito alla possibilità
stessa di ammettere l’esistenza, in Italia, di una comunità romanì
dotata di una cultura e di una lingua sufficientemente unitarie; e,
dall’altro, depotenziando legittime rivendicazioni di ordine
culturale, già molto osteggiate dalla nostra classe dirigente.
Mi riferisco in particolare
all’istanza, formulata anche da una parte rappresentativa e
qualificata della comunità romanì, e alla quale ho dato un
personale contributo, della pur tardiva applicazione, anche per i
rom, di uno dei principi fondamentali della Costituzione della
Repubblica italiana, l’articolo 6: «La Repubblica tutela con
apposite norme le minoranze linguistiche».
Gli argomenti di Stasolla sono più che
discutibili: quando afferma che «una parola non basta a definire 22
comunità diverse», il Presidente dell’Associazione 21 luglio
propone al lettore argomenti che, in realtà, potrebbero essere
estesi ad altre minoranze linguistiche storiche del territorio
italiano: quali comunità linguistiche minoritarie non sono in
effetti rappresentate, in vari gradi, «da culture fuse e
compenetrate con tipicità delle popolazioni locali, da cui sono
scaturite mescolanze, contaminazioni, strategie di visibilità o
mimetizzazione»?
Pensiamo alle comunità linguistiche
franco provenzali, caratterizzate da un’eccezionale variazione
linguistica sia in area alpina (a cavallo di Italia, Svizzera e
Francia) sia in area periferica, quei due straordinari comuni
incastonati nei Monti Dauni in provincia di Foggia, Faeto e Celle di
San Vito, dove sopravvive dopo sette secoli una varietà di
francoprovenzale alquanto mescolata con le parlate locali (lessico,
fonetica e sintassi).
O pensiamo alle cinquanta comunità di
lingua arbëreshe (italo-albanesi), sparse per il meridione insulare
e peninsulare: benché dotate di forti simboli unificatori (su tutti,
il condottiero Skanderbeg, eroe nazionale albanese e “paladino
della Cristianità”), in queste comunità la lingua minoritaria è
molto variamente parlata dalle popolazioni locali, come anche variano
nel loro seno i sentimenti linguistici e il senso d’identità –
alquanto misto tra l’appartenenza allo Stato italiano, il ricordo
della madrepatria albanese e la consapevolezza di un’identità
arbëreshe comunque irriducibile tanto all’una quanto all’altro.
Se poi parliamo di tradizioni, stupirà
come la bevanda tradizionale di una di queste cinquanta comunità
italo-albanesi, Lungro (CS), sede dell’Eparchia degli
italo-albanesi d’Italia, sia il… mate argentino! dovuto a
fenomeni migratori più recenti che portarono molti lungresi a
stabilirsi nel continente sudamericano. Ma gli esempi di questo tipo
sono innumerevoli.
La verità è che la storia di ogni
comunità cosiddetta «etnica» è fatta di mescidazioni,
contaminazioni, stratificazioni, disseminazioni, e le varietà
linguistiche riflettono questa dinamica che è semplicemente
naturale.
In Europa solo il popolo basco può
vantare due caratteristiche singolari: una lingua di origine non
indoeuropea e, come affermato da Luigi Luca Cavalli Sforza,
specifiche caratteristiche a livello di gruppo sanguigno (elevata
incidenza del fattore Rh negativo) che possono spingerci a pensarlo
come uno dei popoli più antichi del Vecchio Continente.
Quanto a noi, è la stessa nozione di
Italia e di italianità che dovrebbe suggerire quanto complesso sia
il tessuto sociale, culturale, linguistico e persino economico di un
Paese de jure unitario. Senza scomodare, come infelicemente fa
Stasolla, «il dottor Mengele», ricorderò come una recente ricerca
italiana, pubblicata su un’autorevole rivista scientifica
internazionale, dimostri come il nostro paese sia uno dei più ricchi
in termini di diversità linguistica e genetica di tutta l’area del
Mediterraneo[1]. Dobbiamo per questo dedurne, sulla scia di Fabrizio
Rondolino, che «l’Italia non esiste?». Direi proprio di no.
In sintesi, così come, a proposito
delle comunità di minoranza linguistica, non si deve indulgere né
alla «cartolina» né al folklorismo, cioè alle rappresentazioni
stereotipe ed etnotipiche, non bisogna neanche scadere in un
relativismo che azzeri ogni tratto identitario risolvendo, nel caso
specifico, i problemi del mondo rom alla sola questione economica,
come propone Stasolla in chiusura del suo articolo.
Non ho fatica a ritenere che non tutto
passi per il denaro, e che l’ostracismo di cui è vittima la
minoranza romanì, soprattutto in Italia, dev’essere interpretato
anche in chiave sociale e culturale.
Quel che è veramente importante è non
contrapporre le azioni urgenti (il soccorso incondizionato a chi vive
in situazioni precarie e pericolose per la propria e altrui
incolumità) alle azioni sul medio e lungo periodo, quali sono per
l’appunto le azioni di sviluppo sociale e culturale, generalmente
silenziose e poco spettacolari ma molto spesso tanto più incisive.
Ripartiamo quindi dal nucleo fondativo
della nostra comunità, la Costituzione, ed estendiamo alla minoranza
romanì la tutela che altre dodici minoranze linguistiche d’Italia
si sono viste riconoscere con la legge statale n. 482 del 1999
(«Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche»)
e con diverse leggi regionali.
La proposta di legge depositata
dall’On. Gianni Melilla e da altri venti parlamentari[2] è di
natura patrimonialista e non droitdelhommiste e non prevede alcun
«diritto speciale» per i rom, come paventa Stasolla. Si tratta di
una proposta volta unicamente all’applicazione dell’art. 6, al
riconoscimento cioè da parte dello Stato italiano della minoranza
romanì come minoranza linguistica di antico insediamento.
Si dirà che questo riconoscimento è
ben poca cosa rispetto alle urgenze del mondo rom, ma in realtà
potrebbe nel tempo contribuire a migliorare di molto i rapporti tra
la comunità di minoranza e il potere centrale: attraverso un patto
di reciproco riconoscimento; il rispetto dei principi costituzionali
e la conseguente simbolica riparazione storica delle violenze subite
dai rom durante la Seconda Guerra mondiale; l’incentivo allo studio
della lingua e alla sua codificazione (non rigida ma “polinomica”,
secondo il modello còrso, tollerante cioè delle variazioni
dialettali), anche in forma scritta; la disalienazione culturale, il
recupero della memoria storica e la conseguente riparazione del
processo, degradante, di auto-odio.
Questi sviluppi virtuosi non
risolveranno subito tutti i problemi di disagio e devianza, ma
daranno un loro contributo, peraltro ben poco oneroso, a migliorare
le condizioni di esistenza della comunità romanì. E,
contrariamente a quello che molti credono, è la comunità stessa di
minoranza ad aver formulato questa istanza di riconoscimento e
standardizzazione del romanés, come ho potuto verificare a valle di
una recente ricerca sulle rappresentazioni sociali della lingua dei
rom e dei sinti in Italia[3].
Anche se chi non ha casa né cibo
chiaramente ci chiederà una casa e del pane, non è mai vero che le
questioni culturali e legate all’identità sono accessorie o
marginali. Per il mondo rom, sovradeterminato da ogni tipo di
pregiudizio negativo, questo è ancor meno vero.
Fondazione Romanì Italia e prof.
Giovanni Agresti
[1] Capocasa et al. 2014. «Linguistic,
geographic and genetic isolation: a collaborative study of Italian
populations», Journal of Anthropological Sciences, vol. 92, pp.
1-32.
[2] Proposta di legge ordinaria 3162 a
firma di Gianni Melilla et al., « Modifiche alla legge 15 dicembre
1999, n. 482, e altre disposizioni in materia di riconoscimento della
minoranza linguistica storica parlante la lingua romanì».
www.camera.it/leg17/126?tab=8&leg=17&idDocumento=3162&sede=&tipo=
[3] Agresti, G. 2015a. Le
rappresentazioni sociali del romanés. Un’inchiesta sulla lingua
dei rom e dei sinti in Italia. Presentazione di Luciano D’Amico,
Gianni Melilla. Postfazione di Pierfranco Bruni. Roma: Aracne
(«L’essere di linguaggio», 3).
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