Ha due nuovi capitoli il dibattito che
si sta svolgendo sull'approccio che le politiche pubbliche dovrebbero
attuare nei confronti delle persone appartenenti alla minoranza
linguistica sinta e rom che vivono in stato di povertà, in
maggioranza nei cosiddetti “campi nomadi”. Carlo Stasolla,
presidente di 21 Luglio ha pubblicato una sua riflessione sul blog del Fatto Quotidiano in cui chiede di de-etnicizzare le politiche a
favore delle persone appartenenti alla minoranza che vivono in stato
di povertà. Nella riflessione che potete leggere di seguito alcune
associazioni rigettano tale impostazione perché la causa principale
per la quale tante persone vivono nelle baraccopoli è la
discriminazione etnica/razziale. Le politiche dovrebbero quindi
contrastare la discriminazione e promuovere politiche di lotta alla
povertà che sappiano offrire soluzioni rispettose della diversità
culturale di cui sono portatrici queste persone.
De-etnicizzare per cancellare
l’identità?
Siamo preoccupati della direzione che
sta assumendo il dibattito pubblico sulla “questione rom”, che,
non è una novità, vede esclusi rom e sinti e protagonisti
accademici e qualche associazione che monopolizza la comunicazione e
anche risorse destinate all’inclusione di rom e sinti. Vogliamo qui
proporre una riflessione pubblica.
Qualche rom ha ritenuto inappropriata e offensiva l’immagine che illustrava la locandina del convegno
“Inclusione, esclusione e diseguaglianze sociali – Politiche
interventi pubblici e processi socio-economici nel contesto europeo –
Il caso dei gruppi rom”, organizzato in Ottobre a Lecce
dall’ICISMI. Sembrava indulgere al solito cliché dei rom e sinti
brutti e sporchi rappresentato da un gruppo di bambini cenciosi,
palesemente non rom. In realtà era perfettamente coerente con il
titolo e l’assunto del convegno che aveva come tema l’inclusione
e l’esclusione sociale in quanto condizione e frutto della
diseguaglianza sociale in generale – di cui quei bambini erano il
simbolo – e nella quale i “gruppi” rom sono inseriti come uno
dei tanti “casi” di studio.
A Novembre l’associazione 21 Luglio
ha presentato una ricerca sui matrimoni precoci nelle baraccopoli
romane. Il fatto che i loro abitanti fossero rom e sinti era pura
casualità per gli autori della ricerca, la tesi essendo che è il
degrado a produrre matrimoni precoci come soluzione alternativa al
disagio e alla diseguaglianza sociale. Tralasciando l’ascientificità
della ricerca (un campione insufficiente, l’incomparabilità della
scala tra i rom delle baracche romane e il Niger, ecc. ma ci
riserviamo una più puntuale analisi), le sue conclusioni prescindono
dai fattori storico-culturali e i dati presentati ai mezzi
d’informazione sono serviti solo a fornire ulteriore materia
all’antiziganismo, cosa puntualmente avvenuta con una raffica di
titoloni del “dagli allo zingaro incivile” (peraltro il titolo
della presentazione era un chiaro invito al sensazionalismo:
“Matrimoni precoci: nelle baraccopoli romane superato il record del
Niger”).
Qui interessa piuttosto capire cosa
lega questi due momenti, entrambi ammantati con l’autorevolezza
scientifica del dibattito accademico e della ricerca. In entrambi i
casi, come si dice tecnicamente, si “de-etnicizza”, cioè si
assume la condizione del degrado delle comunità rom e sinte messe ai
margini sociali e civili come fenomeno della più generale condizione
di marginalità sociale delle diverse fasce di popolazione, cioè tra
un homeless, un immigrato, un italiano in miseria e un rom o un sinto
non c’è differenza essendo accomunati da un medesimo destino.
Quindi la “questione rom” diventa
solo una questione sociale, non è più – e non va più affrontata
– come la questione di una minoranza storico-linguistica messa ai
margini sociali dal suo mancato riconoscimento e dalla
discriminazione, dal profondo antiziganismo che pervade la società
italiana. Non c’è alcuna differenza tra questa e la posizione di
Salvini che pure sull’antiziganismo ha soffiato a pieni polmoni. Se
i rom non si distinguono se non per la loro condizione sociale, che
differenza c’è tra loro e gli altri? Si arrangino come tutti e per
chi non può ci sono gli interventi pubblici come per tutti. Alla
faccia delle politiche dedicate a rom e sinti dal Consiglio d’Europa
e dalla Commissione europea e della Strategia nazionale per rom, sinti e caminanti approvata nel 2012 dal Governo italiano per
contrastare la discriminazione e favorire l’inclusione.
Questa impostazione piace anche a tante
amministratori locali, da Milano in giù, che derubricando a piaga
sociale rom e sinti eliminano la causa stessa dell’emarginazione,
cioè la discriminazione di cui questo popolo è vittima da quando
apparve in Europa intorno al 1400. In questo modo possono
indifferenziare le risorse disponibili per le emergenze sociali
eliminando la voce rom e sinta dal bilancio (cosa che fa bene a chi
non vuole essere attaccato perché “dà i soldi agli zingari”).
Il cuore del problema è quindi il
diritto al riconoscimento del popolo romanì, della sua identità
fatta di una storia, di una lingua, di una cultura.
C’è voluto lo sterminio di 6 milioni
di ebrei perché l’antisemitismo venisse messo al bando nel mondo
civile. Purtroppo il mezzo milione di “zingari” uccisi nei Lager
e le altre migliaia fatte fuori per le strade dell’Europa occupata
dai nazisti, in Polonia, in Russia e negli orridi Lager croati non
hanno avuto lo stesso conforto e oggi, a differenza
dell’antisemitismo, l’antiziganismo non grava sulla coscienza
collettiva.
Gli stessi nazifascisti hanno dibattuto
se rom e sinti, più semplicemente “zingari”, fossero una piaga
sociale o un problema razziale, in realtà alternando entrambi gli
aspetti. Anche qui il mondo accademico e scientifico si mobilitò.
Illustri luminari, che anche dopo la guerra continueranno
tranquillamente le loro carriere, hanno offerto il loro supporto al
delirio nazifascista sulla base dell’eugenetica, la scienza del
“miglioramento” della razza (all’italiano Lombroso sono tuttora
dedicate molte vie nelle città italiane!).
Il nodo viene sciolto dai, diremmo
oggi, decreti applicativi delle leggi di Norimberga del 1935, quando
si codifica, nel Gennaio del 1936, anche da un punto di vista
normativo, che esse vanno applicate anche alla “razza” degli
“zingari” in quanto come quella ebrea “estranea alla specie”.
Infine nel Dicembre 1938 Himmler emana il “decreto fondamentale”
per “la soluzione radicale della questione zingara”.
Nel dopoguerra la questione si è
riaperta a partire dal processo di Norimberga. È stato impedito il
riconoscimento del Porrajmos o Samudaripen – la Shoah dei rom e dei
sinti – e il risarcimento delle sue vittime proprio appellandosi
alla tesi della piaga sociale, negando lo sterminio razziale, fino a
quando nel 1979 la Germania ha riconosciuto l’origine razziale
dello sterminio di rom e sinti, ha eretto un memoriale davanti al
Parlamento tedesco e ogni anno finanzia gli istituti culturali dei
sinti e rom tedeschi.
In Italia nulla di ciò. I campi di
internamento fascisti istituiti in tutta la penisola sin da Settembre
1940 non fanno parte dei libri di storia e nel dopoguerra anche tra
gli storici che si sono occupati di questa questione c’era chi
sosteneva la tesi che la persecuzione di rom e sinti avesse ragioni
sociali e non etniche. Sembrava poi infine affermata la ragione
razziale del Porrajmos o Samudaripen, ma nel 1999 la legge di
riconoscimento delle minoranze presenti sul territorio nazionale ne
riconosceva 12, unica esclusa la più numerosa e la più
discriminata, quella di rom e sinti, e un anno dopo lo sterminio di
rom e sinti è rimasto escluso dalla legge che nel 2000 ha istituito
la Giornata della Memoria per ricordare le vittime del nazifascismo.
Questo rivisitare un po’ la storia
serve per comprendere qual è oggi il problema fondamentale della
comunità rom e sinta e a capire la preoccupazione che nasce
ascoltando quei sociologi e ricercatori che teorizzando
l’universalismo e la de-etnicizzazione della diseguaglianza
azzerano l’identità di un popolo, che è sopravvissuto, finora,
solo grazie al senso di appartenenza a una comunità con una lingua,
una storia e una cultura condivisa pur con tutte le sue
articolazioni.
È bene riflettere sugli esiti, sulle
conseguenze ultime di certi assunti e di operazioni come quelle su
citate.
Il rischio vero è che ci sia un totale
rovesciamento di senso: se le comunità rom e sinte non sono più
ridotte ai margini sociali, civili e persino spirituali perché
vittime di un profondo, diffuso antiziganismo, questo vuol dire che
se la scelgono da sé la marginalità? Se la discriminazione non è
più la causa prima del pregiudizio, dell’esclusione, della ragione
per cui scuola, lavoro e casa sono beni inaccessibili a chi porta il
marchio dello “zingaro”, rimane solo la pura assistenza a gruppi
considerati socialmente fragili. Così si dà legittimità,
consapevolmente o non, a un secondo genocidio, questa volta
culturale, che a differenza di quello fisico rischia veramente di
cancellare il popolo rom. Se si de-etnicizza, se si toglie cioè
l’identità, perché si dovrebbe chiedere il riconoscimento di
minoranza storico-linguistica, perché si dovrebbe tutelare un
patrimonio culturale come la lingua romanès, legame e identità
delle diverse comunità?
Su questo chiediamo di riflettere a
tutti, a chi si occupa a vario titolo di rom e sinti, alle
associazioni rom e sinte e anche a chi, come l’associazione 21
Luglio, persegue questo obiettivo come è evidente seguendo un
percorso coerente di cui segnaliamo alcune tappe
2013
L’attacco alle leggi regionali
specifiche per rom e sinti (obiettivo praticato poi concretamente da
Lega Nord che nel 2015 provvedeva ad abrogare le leggi di Lombardia e
Veneto – difficile dimenticare la foto dei trionfanti consiglieri
regionali lombardi con in mano un modello di ruspa! – e
specularmente l’attacco alla legge regionale approvata nel 2015
dalla Regione Emilia-Romagna con un’ampia e preventiva
consultazione delle comunità sinte e rom).
2014
Il sabotaggio con una lettera alla
Commissione europea condivisa con ERRC e OsservAzione del progetto
approvato e finanziato dal Comune di Napoli che prevedeva la chiusura
del campo di Cupa Perillo con l’inserimento in un progetto urbano
di 400 persone. Grazie alla guerra alla presunta “segregazione”
il finanziamento è stato sospeso e le 400 persone vivono tuttora
nelle baracche.
2015
L’ostilità e il contrasto alla
proposta di legge di iniziativa popolare promossa da 47 associazioni
rom e sinte con l’appoggio di una parte importante della cultura e
dell’associazionismo. La legge assumeva le linee emerse dal un
convegno internazionale di tre giorni sulla situazione giuridica di
rom e sinti in Italia tenuto all’università Bicocca di Milano
condotto dai docenti Paolo Bonetti, Alessandro Simoni e Tommaso
Vitale.
2016
Sul Fatto quotidiano il presidente di
21 Luglio sostiene, attaccando personalmente esponenti
dell’associazionismo rom, che deve prevalere la competenza, quella
degli “accademici” degli “esperti” contro i “detentori
della ‘cultura’ rom”. L’assunto è esemplare: “A livello
europeo sembra prevalere questa tendenza con il risultato che, se nel
passato erano i ‘campi nomadi’ a drenare risorse, spesso
illecite, nell’orizzonte futuro ci saranno praterie per quanti
vorranno operare nell’ambito della ‘cultura rom’. Le
conseguenze sono prevedibili e nefaste: la nascita di una
intellighenzia rom in Italia, detentrice ‘della’ cultura rom e
foglia di fico creata per coprire il fallimento del superamento dei
‘campi’”.
2017
La ricerca sui matrimoni precoci, su
citata. E, infine, la conclusione di questo itinerario ci pare la
proposta di una vera e propria “soluzione finale”contenuta nella
ricerca-azione “Non dire rom”, presentata recentemente da 21
Luglio, che chiude il cerchio del ragionamento sul genocidio
culturale.
L’azione è semplice: semplificando,
per eliminare l’antiziganismo, basta eliminarne l’oggetto, cioè
lo “zingaro”. Non si deve più dire rom, sinti o peggio “zingari”
ma rumeni, bosniaci, serbi, ecc. in condizioni disagiate (per i rom
italiani di antico insediamenti il problema è più complesso ma
certo si troverà una soluzione).
Eliminando la parola rom dal
vocabolario si elimina il problema. Peccato che ciò non dipenda
dalla buona educazione semantica ma dalla concreta, materiale
presenza di un popolo oggetto della più lunga e velenosa
discriminazione, un popolo che c’è e rimane e non si esorcizza
cambiando l’uso delle parole.
Si arriva infine (Blog di Stasolla sul
Fatto quotidiano del 5 Dicembre) a negare la stessa esistenza della
minoranza dei rom e dei sinti in base all’articolazione nominale
delle comunità. Troppi nomi, troppe definizioni impedirebbero
un’unica definizione e di conseguenza chi avrebbe titolo a
definirsi appartenente a una minoranza che non si può definire?
Risulta di conseguenza inutile e sbagliata la pretesa avanzata da
giuristi, parlamentari comunità rom e sinte di ottenere un
riconoscimento giuridico di una minoranza indefinibile.
Basterebbe qualche buona lettura e
considerare il quadro giuridico internazionale per liquidare questo
artificio, ma non si può accettare l’attacco frontale a un punto
essenziale e decisivo per la stessa sopravivenza della minoranza dei
rom e dei sinti, cioè il suo riconoscimento.
Il mancato riconoscimento dello stato
di minoranza , oltre a essere un’offesa alla nostra Costituzione
(artt.3 e 6), alla Convenzione-quadro sulle minoranze nazionali del
Consiglio d’Europa (art.5 e relativa specificazione del Comitato
degli esperti a proposito della minoranza di rom e sinti), di fatto
legittima la discriminazione anche a livello istituzionale, cosa che
unita al pregiudizio e alle campagne di odio dei cacciatori di voti
sulla paura, ha permesso all’antiziganismo di assumere le attuali
dimensioni pervasive della società italiana e ha privato le comunità
rom e sinte di ogni tutela.
Poi, qualcuno degli “esperti” vuol
chiedere a rom e sinti se per caso hanno un punto di vista, se
vogliono avere voce in capitolo e se sono d’accordo di sparire dal
vocabolario, dalla scena civile e culturale dopo aver resistito per
mille anni ai mille tentativi succedutisi nei secoli di assimilarli,
“educarli” e sterminarli?
Dove ci porta la de-etnicizzazione?
Dobbiamo essere tutti eguali, nelle disgrazie e nelle fortune come
sposi, senza storia, identità, cultura? I nativi americani, gli
aborigeni australiani, i popoli primitivi dell’Amazzonia sono, come
rom e sinti, solo residui etnico-culturali da superare? E questo è
conseguenza di un inesorabile processo storico, della modernità,
oppure è solo una forma aggiornata di un colonialismo culturale che
ammette solo l’assimilazione del diverso e non più la convivenza?
Per concludere. Se è evidente
l’interesse di alcune associazioni a monopolizzare le ricche
risorse destinate ai progetti di inclusione delle comunità rom e
sinte (nella logica tutto agli assistenti e nulla agli assistiti),
meno evidente è l’interesse di quella parte del mondo accademico
che si interroga sul superamento della etnicizzazione per affrontare
il tema dell’emarginazione e della diseguaglianza sociale di rom e
sinti. Ed è con questo mondo che ci interessa avere un incontro e un
confronto per evitare che l’oggetto del dibattito sia virtuale o
rappresentato solo da chi come 21 Luglio ha ragioni e obiettivi
completamente e radicalmente divergenti da quello delle comunità rom
e sinte con le quali, non a caso, si esclude il dialogo e il
confronto.
Colpisce molto che questo avvenga
mentre parallelamente le comunità rom e sinte si stanno emancipando
dalla soggezione culturale nei confronti dei gagi e sviluppano
momenti di aggregazione, di dibattito, di iniziative e eventi
culturali che indicano proprio nell’identità che si vuol loro
negare la strada di un rinascimento del proprio popolo che lo
collochi a pari titolo tra le tante e diverse componenti della
società dandogli il diritto di parola su ciò che lo riguarda. Un
percorso parallelo e contrario di cui sembra che mondo accademico e
ricercatori non colgano la novità e il valore e anche il bisogno di
incontro e di scambio.
Infine ci sembrerebbe anche un atto
dovuto domandare ai soggetti pubblici e privati che finanziano
progetti e ricerche che possono avere come conseguenza, e magari
anche come fine, lo sterminio culturale della comunità rom e sinta
se ne sono consapevoli e se ne condividono il senso.
Dijana Pavlovic, portavoce Alleanza
Romanì, Santino Spinelli, musicista, scrittore e docente, Graziano
Halilovic, presidente associazione Roma onlus, Giorgio Bezzecchi,
presidente cooperativa Romano Drom e Museo del viaggio Fabrizio De
André, Carlo Berini, vicepresidente associazione Sucar Drom, Paolo
Cagna Ninchi, presidente associazione UPRE ROMA, Manuel Innocenti,
presidente associazione Sinti Project International, Radames
Gabrielli, presidente associazione Nevo Drom
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