Quattro bimbi rom innocenti e abbandonati: carbonizzati. Quattro genitori rom colpevoli e sbandati: incarcerati. Gli uni e gli altri isolati come un virus. Dentro una baracca bruciata o rinchiusi in galera, comunque fuori dalla città: lontano dal nostro stile di vita, che può tornare al tran tran da mezz’agosto. No, i volontari che si occupano di Rom non ci stanno. Non basta - ripetono - aver trovato quattro responsabili giudiziari d’un comportamento penalmente rilevante per dire che se ne può andare assolto tutto il resto: istituzioni, forze sociali, cittadini. Insomma: per quanto ci crediamo assolti, siamo per sempre coinvolti...
«Credete davvero che se avessero l’energia elettrica, accenderebbero fuochi?». Parte da qui Mauro Nobili, direttore della Caritas diocesana, per dire che quel che è accaduto sotto il ponte di Pian di Rota dipende anche dal fatto che le politiche sociali «sono settoriali anziché universali», si basano su rattoppi anziché su diritti. Logico - aggiunge - che ci siano «pezzetti di disagio sociale che restano tagliati fuori, e in particolare i nomadi».
Il dirigente della Caritas lo vede come «un problema non solo di Livorno ma anche di Livorno»: e comunque - rincara - «qui da noi la soluzione potrebbe essere non difficilissima». Visto che non ha i numeri di una metropoli, l’amministrazione locale potrebbe «darsi il ragionevole obiettivo di integrare un’ottantina di rom». Queste «non sono presenze invisibili e sotterranee, un altro pianeta rispetto a noi e alla nostra mappa dei diritti e dei doveri»: non è cosa impossibile scoprire dove si accampano, «basta seguirli una sera».
Ma lo sgombero forzato «non può essere l’unico modo di rapportarsi a queste persone»: per Nobili alla radice della tragedia «c’è anche lo spappolamento d’una comunità», i cui frammenti sono rimasti isolati «e un rom fuori dal suo gruppo fa naufragio».
Il responsabile della Caritas non è affatto tenero con il Comune: «ci sono 40-50 rom che hanno cercato un dialogo con l’amministrazione locale e aspettano da vent’anni una risposta concreta». Non lo è nemmeno con la Chiesa: «Tante strutture ecclesiali sono sottoutilizzate. Abbiamo chiesto a ogni parrocchia di farsi carico dell’integrazione di una persona. Ma non è stato fatto molto di più di quel che non ha fatto il Comune».
Gli educatori salesiani del progetto rom sottolineano che la normativa regionale (la legge 12 del 2000) offre ai Comuni «molti spunti per favorire percorsi d’integrazione delle comunità rom e migliorarne le condizioni di vita». Però qui da noi resta lettera morta: «Ci rammarica molto constatare che nella nostra città, nonostante l’impegno della società civile e della comunità rom in dialogo con le istituzioni, ci sia inadempienza» su questo fronte che promuove «la convivenza pacifica e la sicurezza dei cittadini».
Come? I volontari salesiani sono d’accordo con la proposta del governatore Martini di un «patto di socialità e legalità» e offrono collaborazione: in concreto, ritengono che sarebbe «un passo coraggioso» la «realizzazione di strutture o luoghi attrezzati» come pure «l’uso di edifici pubblici abbandonati o chiusi».
Il team di educatori ricorda di aver «segnalato nei mesi scorsi» questa situazione di «emarginazione e estrema solitudine», della quale «crediamo di esser tutti responsabili: la comunità civile, quella politica, quella ecclesiale».
In una lettera «alla famiglia dei bambini e alla comunità rom romena», i volontari si dicono «vicini» ai «nostri vicini scomodi», arrivati qui con la speranza di «un futuro che ci rende tutti uguali, despositari della stessa dignità»: si augurano che ora in questa vicenda «non ci si accontenti di cercare e trovare un capro espiatorio».
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