Questo capita in vari tempi, in diversi Paesi. Non si sa con esattezza quanti siano i Rom residenti in ciascuno Stato. Sappiamo, però, che in alcuni sono numerosi, soprattutto nei Balcani orientali. Ma un numero ancora più consistente di essi è «sempre in cammino». Chissà da dove vengono o dove vanno; ignoriamo se partono o tornano.
In Europa ce ne sono più di dieci milioni. Se si mettessero insieme formerebbero una popolazione più numerosa di quella di una mezza dozzina di Stati del nostro continente. Non hanno un proprio territorio né un proprio governo. Hanno tutti un paese natale, ma non una patria. Sono parte del popolo in mezzo al quale vivono, ma non di una nazione. Non sono neppure una minoranza nazionale: sono transnazionali.
Arrivarono dall’Asia, sono discendenti di popolazioni dell’India settentrionale. Fin dai remoti tempi dell’esodo, si distinguevano per tribù. Attraverso la Persia, l’Armenia, l’Asia Minore, videro ed impararono come si fa il pane. Questo cibo elementare, peraltro, non era sconosciuto ai loro lontani antenati.
Hanno portato con sé dall’antica terra natia alcuni nomi propri, fra cui quello di Rom. Altri gli sono stati attribuiti da gente a loro estranea. Il termine zingaro deriva del greco Athinganos. Gli slavi del Sud li indicano con il termine ciganin, tsigan, tsigo; in Inghilterra li chiamano gipsy da egytios, anche in Spagna, «per il colore bruno della loro pelle». Sono detti anche Maneschi, Sinti, Gitani, Boemi. Un poeta croato di Dubrovnik, intitolò Jedupka - vale a dire Egiziana - un suo poema che ha per protagonista una bella Romina.
Gli uomini si dedicavano spesso all’arte del fabbro, lavorando i metalli, costruendo attrezzi agricoli, coltelli e spade, ferrando i cavalli; all’allevamento e al commercio degli equini; alla musica suonando chitarre o violini per rallegrare o consolare gli innamorati, gli infelici e gli ubriachi. Le «belle zingare» cantavano, danzavano e seducevano - in alcune regioni lo fanno ancora. E fanno le indovine, senza dimenticare l’«arte» antichissima dell’accattonaggio, tirandosi dietro per mano, attaccati alla gonna, o portati in braccio i loro bambini.
Nella mia terra natale i Rom sembravano essere più numerosi che altrove. Da ragazzo mi univo spesso a loro. I miei genitori mi rimproveravano, temevano che gli «zingari» mi rapissero portandomi via chissà dove - correvano voci di rapimenti. Ma nessuno mi ha mai fatto del male; invece, ho imparato dai Rom molte cose utili. Essi apprendono facilmente le lingue, forse più degli altri. Ignoro se nella loro vita di erranti riescano a conoscere la felicità, ma certamente sanno come si può essere meno infelici. Essi mi hanno aiutato ad ascoltare ed annotare parte del racconto che qui espongo.
I Rom hanno diversi termini per indicare il pane; il più frequente è marno che diventa poi manro, maro e mahno nelle varianti. La farina è arho, un nome che nella romanichila, la lingua dei Rom, non ha il plurale. E la cosa, forse, non è casuale. Il lievito si dice humer, la fame è bok, essere affamato è bokhalo - queste ultime due parole, sono di uso abbastanza comune. Ch’alo (si pronuncia: cialo) è sazio, panif è l’acqua, jag è il fuoco, lonm è il sale; mangiare si dice hav che è infinito e presente insieme. Conoscendo la povertà, la penuria e la ristrettezza, circondati da tante cose ma privati quasi di tutto, i Rom sanno ben distinguere ciò che è pulito (vujo) e quel che è sporco (mariame) non soltanto nel cibo, ma anche negli usi e costumi.
Non si servono di ricette scritte su come si fa il pane o come si prepara qualsiasi altro cibo, ma conservano e si tramandano una lunga tradizione orale che passa di madre in figlia, di generazione in generazione. Il loro modo di vivere non gi permette di servirsi di forni per il pane, ma una focaccia si può cuocere anche sulle ceneri del focolare e la pitha (una specie di pizza) su una piastra di semplice latta. Sapeste come sono saporite le pagnotte e le focacce dei Rom!
Nei loro proverbi sul pane c’è molta saggezza. Ne ho annotati alcuni nella lingua originale e li riporto perché se ne senta il suono; li ho poi tradotti per renderli più comprensibili.
Kana bi e ciorhe marena marnesa, vov bi lengo vast ciumidela: Se il povero venisse bastonato con il pane, egli bacerebbe la mano di chi lo colpisce.
O marno sciai so o Develni kamel thai so a thagar nasc’tisarel: Il pane può fare quello che Iddio non vuole e che l’imperatore non riesce a fare.
Kana bi ovela ne phuo marno savorenghe, ciuce bi ovena vi e khanghira vi e krisa: Se vi fosse pane sufficiente per tutti in questo mondo, le chiese e i tribunali sarebbero deserti.
Te si marne thei nai biuze, na bi trebela rugipe: Se ci fosse il pane e non ci fossero i furbi, le preghiere sarebbero inutili.
O bokhalo dikhel suno e marne, o barvalo dikhel suno pe sune: L’affamato sogna il pane, il ricco sogna i propri sogni.
Una giovane rom, allattando il proprio bimbo al seno, mi recitò quanto trascrivo di seguito, nella sua lingua: una breve canzone dedicata al pane. Me la tradusse persino. Il titolo è Marno, semplicemente: «Pane».
«I voghi e iag giuvdarel, / i pani o arko bairarel. O humer i dai longiarel / thai peske ilesa gudgliarel, gudlo thai baro te ovel, / pire c’havoren te ciagliarel».
Ed ecco la traduzione, purtroppo senza la fisarmonica e il tamburello: «Il soffio ravviva il fuoco,/con l’acqua si gonfia la farina./La mamma versa il sale nella pasta,/la insapora con l’anima sua/perché il pane sia dolce ed abbondante/e nutra i suoi bambini».
L’uomo non nasce mendicante, ma lo diventa. E non lo diventa soltanto per volontà propria. L’accattonaggio è l’ammonimento agli uomini veri e alle fedi sincere: a quelli chiamati a dare il pane a ciascuno, a coloro che non dovrebbero dimenticare la carità. Le armi e le guerre costano molto di più del pane. Gli antichi profeti consigliarono, invano, di sostituire la lancia con il vomere. I Rom non possiedono terre da arare. Ed oggi è per loro più facile mendicare, e talvolta, anche un po’ rubare. Domani, forse, non sarà più così. «Non dovrebbero essere così», dice il vecchio zingo, come una volta lo chiamavano nei Balcani, usando termini vezzeggiativi. di Predrag Matvejevic (traduzione di Giacomo Scotti)
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