martedì 19 agosto 2008

Tettamanzi: «L'appello del Papa chiede ora di essere messo in pratica»

Il cardinale Dionigi Tettamanzi, nelle parole di Benedetto XVI all'Angelus, invita a cogliere anzitutto l'aspetto della coerenza, a cominciare dai fedeli: la responsabilità di chi regola la propria vita in base a quella che ha più volte definito come la «Carta» dei cristiani, le Beatitudini evangeliche, l'attenzione ai poveri e agli ultimi.
L'arcivescovo di Milano è tra i non moltissimi ambrosiani rimasti a presidiare la città di metà agosto, nell'omelia dell'Assunta aveva invitato i fedeli ad «andare controcorrente», a liberarsi dalla «schiavitù della materialità» e «dall'affermazione di un egoismo violento che spegne ogni apertura e sensibilità verso chi è debole e povero», ad essere «ostinati testimoni di speranza».
Così ora misura le parole e spiega: «È da sottolineare, tra l'altro — laddove il Santo Padre parla di "tentazione del razzismo, intolleranza e esclusione" — l'impostazione che ha voluto dare al suo intervento. Egli si rivolge anzitutto alla comunità cristiana affinché sia attenta, vigile e protagonista nell'accoglienza, e al tempo stesso con la sua presenza brilli come segno profetico di comunione e di solidarietà dentro la società».
Quando in aprile, dopo lo sgombero di un campo rom, una nota della Curia milanese aveva denunciato che si era scesi «sotto il rispetto dei diritti umani», la faccenda non riguardava gli schieramenti ma, ancora una volta, la famosa «Carta», quel rispetto umano «che imporrebbe qualche tanica d'acqua, del latte per i più piccoli, un presidio medico, una qualche soluzione alternativa», si leggeva. Il cardinale non ama che le sue parole vengano piegate alla cronaca, interpretate secondo gli schemi della polemica politica.
La cosa, a maggior ragione, vale per il Papa e le sue parole sull'intolleranza e il razzismo. «L'insegnamento di Benedetto XVI è rivolto alla Chiesa universale», premette Dionigi Tettamanzi. «Anche a Milano, quindi, ci sentiamo interpellati dalle sue parole». L'essenziale, di là dalle interpretazioni interessate e dalle polemiche, è appunto «mettere in pratica» ciò che il Pontefice ha ripetuto, scandisce l'arcivescovo: «Nella diocesi ambrosiana assistiamo da tempo ad un consistente fenomeno di immigrazione che sta portando da noi un notevole numero di stranieri: nelle nostre parrocchie siamo attivi affinché questi nuovi venuti siano accolti, aiutati nell'inserimento nella comunità cristiana e nella società e non siano oggetto di pregiudizi, anzitutto da parte dei credenti».

Questo è il punto. E l'arcivescovo lo sa bene, è l'esperienza quotidiana del suo episcopato da sei anni a questa parte. L'accoglienza aliena da pregiudizi, considera, «non è una missione facile, anche perché il problema è complesso e la sua soluzione esige saggezza e impegno a rispettare — insieme — i diritti dei singoli e della società».
In quell'«insieme» c'è il cuore del discorso. La Chiesa sa bene come l'intolleranza verso gli stranieri e i diversi esprima talvolta il disagio di altri «ultimi». Lo stesso Benedetto XVI ha parlato di «manifestazioni preoccupanti, legate spesso a problemi sociali ed economici, che tuttavia mai possono giustificare il disprezzo e la discriminazione razziale». Di qui la necessità, più volte espressa dal cardinale nei suoi «discorsi alla città» alla vigilia di Sant'Ambrogio, di dare «risposte concrete nel segno della legalità, della sicurezza, dell'accoglienza».
L'unica è tenere assieme le tre cose, anche se non è davvero facile. «Rispettare i diritti dei singoli e della società». Il cardinale allarga le braccia: «Non sempre l'azione è coronata da successo. Abbiamo — come primaria — una preoccupazione educativa, affinché non prevalga la paura istintiva: nel rapporto con l'altro, con lo straniero, con il diverso». Qui possono venire in soccorso la responsabilità sociale di tutti e, per i credenti, la coerenza rispetto alle Beatitudini.
Nell'ultimo discorso di Sant'Ambrogio Tettamanzi aveva puntato il dito contro «l'incoerenza tra il dire e il fare, uno dei segnali più evidenti dell'individualismo parolaio di chi crede di essere al passo con i tempi e magari si sente moralmente importante, ma solo a parole».
Quanto ai fedeli, ancora risuonano le parole (in apparenza) paradossali che Tettamanzi pronunciò due anni fa, al convegno Cei di Verona: «È meglio essere cristiano senza dirlo che proclamarlo senza esserlo». La coerenza, ancora una volta, «non alla maniera di semplici ripetitori ma di testimoni efficaci». Anche se talvolta esige di pagare un prezzo. L'alternativa è quella che l'arcivescovo ha descritto a giugno, nella sua ultima lettera pastorale, con parole insolitamente dure: «Non è spontaneo per nessuno rifarsi e ispirarsi allo spirito radicale del Vangelo e c'è per tutti il rischio di chiudersi in una preoccupazione per noi stessi, che ci fa scoprire la più grande miseria morale». Perché «il rapporto con l'altro, lo straniero e il diverso sono temi decisivi», ripete ora Tettamanzi. Come decisive sono le parole di Benedetto XVI, conclude: «Su questi temi, il mio magistero si muove a partire dalla Parola di Dio ed è sostenuto dalla preghiera, così come ci ha insegnato con grande chiarezza e sapienza il Papa nell'Angelus, ed ha come esclusivo obiettivo l'azione pastorale, la crescita nella santità del popolo che il Signore mi ha affidato e l'amore preferenziale per i poveri». di Gian Guido Vecchi

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Gente come Tettamanzi e Martini hanno fatto si´che non entrero´mai piu´in una Chiesa.

Anonimo ha detto...

Guarda non ci vuole niente per rendersi conto della nostra miseria, però la vita è la vita e qualcosa bisogna pur fare. Chi non fa niente non sbaglia mai, invece chi fa sbaglia perché è così che va il mondo.

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