martedì 4 novembre 2008

L'America è pronta per un leader nero ma l'Italia è pronta per un leader sinto?

Secondo segretario di Stato nero nella storia dell’America, primo segretario di Stato nero e donna, Condoleezza Rice è stata uno degli esponenti dell’amministrazione Bush più vicini al Presidente, in un secondo mandato segnato dalla difficilissima guerra in Iraq e da una lunga opera di ricucitura con la Vecchia Europa, dopo lo strappo del 2003.
Oggi è l’ultimo giorno dell’ora Bush, quali pensa che siano i suoi maggiori lasciti?
«Conosco abbastanza la storia per dire che occorreranno parecchi anni per saperlo. Ma so anche che debbo rispondere ora. Credo che il lascito maggiore sia il rafforzamento delle alleanze dell’America nel resto del mondo, soprattutto attraverso l’allargamento e la trasformazione della Nato. Ma probabilmente ancora più importante, specie ai miei occhi, è l’aver portato la democrazia nel cuore del Medio Oriente. Penso che l’emergere di un Iraq multi-partitico e multi-etnico avrà un grande impatto su tutta la regione».
E quali sono i più grandi errori?
«Se guardo indietro, ne vedo parecchi. In Iraq, per esempio, ci siamo concentrati troppo su Baghdad, all’inizio, e abbiamo forse trascurato le province. E oggi appare chiaro come sia il rapporto tra potere centrale e province la chiave della rinascita irachena. Ma non so se nel 2003 avremmo potuto fare una politica diversa».
E la reazione all’11 settembre, fu adeguata, o sproporzionata?
«Sono passati sette anni, ed è difficile ricordare tutti i dettagli di quella giornata. Mi piace raccontare un episodio che può far capire la situazione. Ero nel mio ufficio e mi stavo preparando a un discorso. Quando il primo aereo colpì le Twin Towers, entrò la mia assistente e mi disse che era uno strano incidente. Subito pensai che si trattasse di un piccolo aereo da turismo, ma lei: “No, è un aereo di linea”. Il presidente chiamò, gli dissi che era un incidente molto strano. Mi chiese di tenerlo informato. Scesi giù, per la riunione con il mio staff. Arriva di nuovo la mia assistente per dire che il secondo aereo si era schiantato. Ho pensato, Dio mio, è un attacco terroristico. Poi un terzo aereo colpì il Pentagono. Arrivano gli uomini dei servizi e ci dicono che dobbiamo scendere nei bunker. Dico che devo chiamare il Presidente. Gli parlo, “Non puoi tornare qui. Washington è sotto attacco”. Ho studiato a lungo l’Unione Sovietica, ho fatto molti war game durante la mia preparazione: e due li sperimentai davvero quel giorno. Uno fu contattare i russi. Poi con il Dipartimento di Stato dovetti preparare una dichiarazione da diffondere in tutto il mondo... La maggior parte dei responsabili dell’11 settembre sono ora in carcere o sono stati uccisi. Ma ce ne sono altri, che tramano ancora. Noi non possiamo mai sbagliare, loro possono riuscire anche solo una volta. Non ci sono reazioni eccessive».

Le è cresciuta nel Sud segregazionista, a Birmingham. In che modo l’ha influenzata?
«Sono cresciuta in una meravigliosa famiglia della classe media. I miei genitori erano insegnanti. Hanno sempre cercato di farmi da scudo. Ma sapevi che c’era un motivo per cui non potevi andare in un parco, in un cinema o a un certo banchetto per gli hamburger. Non potevano farti da scudo completamente. Ma erano convinti che il razzismo non dovesse diventare una giustificazione per non riuscire nella vita, che il razzismo era il problema di qualcun altro, non il tuo. Tutto ciò mi ha aiutato molto, ma il 1963 fu un anno durissimo. Esplodevano bombe nel nostro quartiere, giravano i White Knight, mio padre e i miei fratelli dovettero armarsi per difendere le loro case. Un mio compagno di scuola morì bruciato vivo in una chiesa».
Dovette subire episodi di razzismo?
«Certamente, in modi subdoli. Mi ricordo lezioni in cui il professore spiegava perché i neri erano scientificamente meno intelligenti. Ma ho imparato presto a concedere agli altri il beneficio del dubbio, a non pensare subito che qualcuno agiva così perché era razzista».
Pensa che l’America sia pronta a un presidente nero?
«Certo che sì. L’America è un Paese straordinario, dove le attitudini sociali cambiano in modo quasi impercettibile, e poi ti svegli una mattina e tutto è cambiato. Sono dodici anni che l’America non ha come segretario di Stato un uomo bianco. E nessuno ci fa molto caso».
La maggior parte degli afroamericani votano per i democratici. Che cosa l’ha spinta tra i repubblicani?
«Nel 1976, la prima volta che votai, ero attratta da Jimmy Carter. Ma nel 1979, quando l’Urss invase l’Afghanistan, fui molto delusa dalla risposta, e l’anno dopo votai per Ronald Reagan». di Marc Hujer

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