giovedì 13 novembre 2008

Rom e Sinti, il dramma delle adozioni facili

Bambini rom e sinti uguale bambini maltrattati: un’equazione assai diffusa nell’opinione pubblica, ma anche fra gli operatori di settore. Ha fatto scalpore in Italia la ricerca commissionata dalla Fondazione della Cei Migrantes al dipartimento di Psicologia e antropologia culturale dell’Università di Verona.
Secondo questa ricerca sono infatti proprio i servizi territoriali per l’infanzia e le autorità guidiziarie a generalizzare con estrema disinvoltura, cedendo ad uno fra i più pericolosi pregiudizi sulla tutela dei minori: quello secondo cui la cultura rom sia sempre e comunque “mancante” nei confronti dei bambini.
Lo studio prevedeva la raccolta e l’analisi di dati documentati relativi all’affidamento e all’adozione di minori rom e sinti a famiglie gagé da parte delle autorità giudiziarie, nel periodo compreso tra il 1985 e il 2005. Partendo dalle dichiarazioni registrate presso otto dei 29 tribunali minorili italiani (Torino, Bologna, Bari, Lecce, Trento, Firenze, Venezia e Napoli) e dalle informazioni raccolte nei servizi sociali di riferimento, comunali e ospedalieri, in materia di allontanamento dei minori dal nucleo famigliare, la ricercatrice Carlotta Saletti Salza ha individuato oltre 200 casi di bambini rom e sinti dichiarati adottabili.
I dati raccolti in ciascuna delle sedi mostrano differenze rilevanti legate al contesto storico e sociale all’interno del quale, negli anni, si sono inserite le diverse comunità nomadi (per esempio, ambiguità e confusione di competenze, con conseguenti ingerenze da parte del tribunale là dove siano carenti i servizi sociali. O al contrario una specializzazione consolidata fra gli operatori sociali, che però rafforza lo stigma culturale).

Nel complesso l’analisi mostra la facilità con la quale tanto la tutela sociale (dei servizi di territorio) quanto la tutela civile (dell’autorità giudiziaria) tendano a identificare un minore rom con un minore sempre e comunque maltrattato. Emerge, infatti, l’enorme difficoltà di molti operatori a riconoscere l’identità del bambino nomade nel suo contesto culturale e nel suo modello educativo: i circa 200 casi di adattabilità dichiarata denunciano un “pregiudizio” (così come inteso dal codice civile) relativo a una tutela dalla quale, paradossalmente, il minore resta escluso. Come accade nel caso di allontanamento famigliare e di inserimento in comunità, col divieto da parte del tribunale di fare incontrare i bambini coi rispettivi genitori fino al termine dell’istruttoria (spesso, per lunghi mesi, con ricadute negative nei loro rapporti).
Ma l’accusa più pesante viene dagli avvocati che seguono questi casi: probabilmente, sostengono, il reale interesse dei vari operatori coinvolti è quello di trovare il maggior numero possibile di minori per le famiglie gagé che fanno domanda di adozione. Un’affermazione pesante che, a prescindere dalla sua veridicità, offre lo spunto per una riflessione su due aspetti: il primo riguarda la definizione della soglia in funzione della quale l’operatore stabilisce per il minore la condizione di “pregiudizio”.
Ad oggi i bambini rom vengono segnalati all’autorità giudiziaria in base al grado di tolleranza personale degli operatori sociali, spesso molto basso. Il secondo apetto riguarda l’applicabilità della norma giuridica italiana a un minore il cui contesto famigliare potrebbe non riconoscere la norma stessa e le sue finalità. Attualmente, pochi magistrati minorili riconoscono la necessità di decodificare il contesto culturale e in molti non ritengono opportuno riconoscerne la specificità dettata dall’appartenenza culturale. di Chiara Cantoni

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