Nelle scorse due settimane il telefono di Anna Pizzo ha squillato molto più del solito. Lei è consigliera regionale, e il suo cellulare è solitamente irrequieto, ma questa volta ha superato tutti i limiti e io, che vivo con lei, mi stavo innervosendo. A chiamare in continuazione era un certo Sandro. Anna mi ha infine spiegato chi è Sandro: è uno dei capifamiglia di una famiglia allargata di Rom, una cinquantina, metà circa bambini e ragazzi, tutti cittadini italiani. «E che vogliono da te?», ho domandato. Lei mi ha spiegato che si erano aggrappati a quella unica piccola finestra aperta sulle istituzioni per cercare di risolvere il loro problema. «E qual è il problema?». La spiegazione è stata lunga.
Prima c’è un gruppo di Rom che, dal Veneto, si trasferiscono molti anni fa a Roma per lavorare. Fanno i «calderash», lavorano con i metalli, e sono così bravi che ogni anno si trasferiscono al nord, dove molte chiese affidano loro lavori di restauro. Negli anni, finiscono per stabilirsi nell’ex Mattatoio romano, abbandonato e vuoto. Poi accadono due cose. La giunta Veltroni decide di aprire lì la Città dell’Altra economia, iniziativa ottima che però comporta lo spostamento dei Rom un po’ più in là, sulla sponda del Tevere. Veltroni se ne va e arriva Alemanno, e il giorno dopo che il prefetto di allora, Mosca, aveva dichiarato «non ci saranno mai più sgomberi di Rom», la polizia si presenta in forze al lungotevere Testaccio, fa staccare luce e acqua e intima ai Rom di andarsene. Dove?, chiedono loro. Non si sa. Mettono in fila camper e roulotte e si avviano in un largo giro che si conclude nell’estrema periferia sud, dalle parti della università di Tor Vergata. Il rettore protesta, allora vengono ancora spostati: a Tor Sapienza. Un’unica fontanella e niente luce, nonostante loro abbiano già pagato l’allaccio all’Enel. Passano mesi, e i cinquanta di Sandro decidono di andarsene: il posto, già inospitale, si è ulteriormente affollato. Comincia così un’odissea dentro e attorno a Roma: Romanina, Ardeatina, Capannelle, uno spiazzo momentaneamente libero dal mercato settimanale, un parcheggio semi-abbandonato, il terreno che provvisoriamente un parroco affitta loro a prezzo assai modico, ecc. Ogni volta si presenta un carabiniere, un poliziotto, una presunta ronda di individui con pettorine fosforescenti, la guardia privata di un istituto di ricerca, per intimare loro di andarsene. Subito. I cinquanta Rom caricano ogni volta la decina di camper e roulottes e se ne vanno: non cercano rogne, e telefonano all’unica persona delle istituzioni che – evidentemente – è disposta ad ascoltarli. La quale chiama assessori e presidenti di Municipio, e perfino centri sociali, per trovare uno slargo, uno spazio, un posto qualunque dove gli “zingari erranti” possano fermarsi. Nel frattempo, i bambini non possono più andare a scuola, com’è ovvio, anche se le maestre e molti genitori della scuola che frequentavano, al Testaccio, hanno raccolto firme in loro appoggio. La figlia grande di Sandro ha appena finito la quinta elementare, in pagella ha tutti voti ottimi.
Però nessuno sembra provare interesse per questi connazionali di cultura rom, con nomi e cognomi italiani e la faccia delle brave persone, per cui si supporrebbe che tutti gli stereotipi sui Rom sporchi e ladri e mendicanti e ladri di bambini debbano fare più fatica a penetrare nelle menti, per non parlare delle amministrazioni. E d’altra parte, non erano quasi tutti cittadini italiani i Sinti che all’inizio di marzo 150 poliziotti – che avevano fatto irruzione all’alba in 15 campi del Veneto – hanno fotografato di faccia e di profilo, con addosso un cartello con le generalità e, in molti casi, un numero? Ma anche l’argomento «sono italiani» è debole: come spiega Tommaso Vitale, sociologo e studioso dell’argomento, nel numero di Carta settimanale [la cui copertina è dedicata alla «questione zingara»], in Italia si sono inventati i «campi nomadi» e si è costruita – con la perdita di memoria sull’Olocausto Rom e con un arsenale di schemi culturali razzisti – la figura dell’«eterno straniero».
Negli ultimi giorni il cellulare di Anna si è placato, Sandro e i suoi hanno trovato un posto: un campeggio di Bracciano, vicino Roma, dove potranno stare per un mese pagando un prezzo molto scontato. Il proprietario del camping non ha di questi pregiudizi, infatti è tedesco. di Pierluigi Sullo
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