È possibile parlare di «zingari» senza pregiudizi, evitando sia il pietismo sia la condanna a priori? Sì. Lo dimostrano due registi milanesi, Tonino Curagi e Anna Gorio, in «Via San Dionigi, 93». Prodotto dalla Provincia di Milano, il film viene presentato oggi alle ore 19.00 (con i registi in sala) e domani alle ore 17.00 allo Spazio Oberdan in viale Vittorio Veneto n. 2 a Milano.
La storia è quella di un campo rom situato vicino all' abbazia di Chiaravalle, colpito più volte da incendi, distrutto dalle ruspe comunali nel 2007 e prossimo all’ennesimo sgombero. Le riprese sono durate più di due anni, e i 70 minuti di film sono il distillato di oltre 50 ore di girato: non ci si improvvisa documentaristi! «E per i primi sei mesi », aggiunge Curagi, «non abbiamo acceso la videocamera. Andavamo nel campo due volte la settimana, solo per conoscere le persone. Non volevamo essere come turisti che vanno allo zoo».
Come hanno reagito i Rom?
«Alcuni ci dicevano: 'Perché raccontate le nostre difficoltà? Noi ci vergogniamo della nostra povertà. Mostrarla ci emargina ancora di più'. Molti altri hanno condiviso il nostro proposito di mostrare la loro vita quotidiana a tutto tondo. Ci sono padri di famiglia che hanno un lavoro regolare, ma si parla anche di furti, di prostituzione... che non sono cose esclusive di quella realtà. I rom hanno avuto coraggio dicendoci di tenere quelle sequenze».
Il vostro documentario è molto diverso da ciò che si vede in televisione.
«Non c'è voce fuori campo, non ci sono interviste né ricostruzioni. Non c'è qualcuno che spiega le cose. Volevamo seguire le orme di due maestri come Frederick Wiseman e Nicholas Philibert (autore di «Essere e avere», ndr)».
Lei insegna alle Scuole civiche di cinema. Che cosa dice ai giovani che vogliono fare documentari?
«Lo sguardo cinematografico non è mai imparziale. Ma l'importante è demolire gli stereotipi».
Che messaggio sperate arrivi dal vostro film?
«Al di là di ogni discorso buonista o dell'indignazione civile per lo sgombero che ha separato intere famiglie, ci piacerebbe che lo spettatore si sentisse come in una macchina del tempo. E non solo perché in questi campi manca la luce e c'è un rubinetto per duecento persone. Nella collegialità delle decisioni e nel mutuo soccorso, i rom hanno un senso di comunità quasi tribale che noi abbiamo perso». di Alberto Pezzotta (foto di Silvio Mengotto)
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