Non serviva. La considerazione politica era già diventata etnica, guerra tra poveri. Le vittime diventavano colpevoli, i mercanti di uomini erano dimenticati o assolti. Il cortocircuito mentale era scattato: era figlio di un assedio mentale troppo forte perché una persona sola potesse resistergli. Era figlio di troppi padri, e quei padri non stavano soltanto a destra. Oggi sono i capitani d’industria a chiedere di aprire il Paese all’immigrazione. I padroni, non i lavoratori.
L’equivalenza tra immigrazione e barcone pieno di potenziali delinquenti non veniva solo dalle urla bossiane, da vecchie xenofobie o dal consumismo televisivo che distrugge i valori. Nasceva anche dal rifiuto di certo buonismo di maniera o da certo multiculturalismo d’accatto che bada alle identità di chiunque tranne che alla propria. Veniva, soprattutto, da un grande vuoto d’informazione.
Gli immigrati sono la base del nostro sistema-Paese. Senza di essi, l’Europa non esisterebbe. La Germania non sarebbe uscita dal dopoguerra. La Francia e l’Inghilterra non sarebbero tra le prime potenze mondiali. In Italia, senza di loro andrebbe in tilt la siderurgia, l’industria tessile, le concerie, la raccolta delle mele e dei pomodori. Non ci sarebbe prosciutto, mozzarella, parmigiano. Non funzionerebbe la metà dei ristoranti. E in Adriatico, senza extracomunitari (Senegalesi) la pesca morirebbe. Di Paolo Rumiz
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