"Vedremo". "Forse". "Se proprio dovesse essere necessario". È già sera. Il presidente del Senato Renato Schifani ha appena inviato la lettera di Napolitano ai capigruppo, le sei cartelle cominciano a circolare. E parte la demolizione. Il fastidio verso il Quirinale, covato per un intero pomeriggio, deborda inevitabile nel centrodestra. Tenere conto dell'invito del presidente e rifare il ddl sulla sicurezza? Neanche a parlarne. Berlusconi è tranchant: "Se lo scordi, il testo resta quello che è".
Nessuna nuova legge, al massimo il ministro dell'Interno Roberto Maroni cercherà di tenere buono il presidente con il regolamento sulle ronde. Gliel'ha detto subito, di buon mattino, quando il capo dello Stato lo ha chiamato per prepararlo alla missiva. "Le ho inviato una lettera in cui esprimo le mie perplessità e le mie preoccupazioni su questa legge... che comunque ho firmato" dice Napolitano. E Maroni gli risponde: "Sì, stia tranquillo, quel testo sulle ronde è già pronto, lo mando in Parlamento la prossima settimana. E poi c'è la sanatoria già avviata per le badanti". Ma Bobo si frega le mani per la firma sotto la legge pronto a vendersela con il popolo della Padania come un grande successo della Lega. Questo dicono i suoi, i Bricolo, i Cota, "d'ora in poi i cittadini si sentiranno più sicuri".
L'ordine di scuderia nell'entourage del Cavaliere è "minimizzare". Ecco il Guardasigilli Angelino Alfano che lo fa ufficialmente: "Se dovesse essere necessario valuteremo eventuali modifiche". Niccolò Ghedini, l'uomo ombra per la giustizia di Berlusconi, conferma: "Vedremo se singoli rilievi porteranno a dei cambiamenti". E arriva il commento di chi ha parlato con il Cavaliere e ne riferisce il pensiero: "Certo che quest'uscita se la poteva proprio risparmiare".
Fastidio e irritazione profondi, mascherati all'esterno all'insegna dell'understatement. Dice il premier ai suoi: "Me l'aspettavo. Lui annuncia la tregua per il G8 e poi la rompe. Cerca in tutti i modi di condizionare la nostra azione politica. Lo ha già fatto con le intercettazioni. Ma noi andremo avanti lo stesso. Intanto un provvedimento come questo, fortemente voluto dalla gente che non ne più degli immigrati e della mancanza di sicurezza, è comunque diventato legge".
A palazzo Chigi, ormai da giorni, non si fa che chiosare sulla sindrome del commissariamento, sugli interventi continui che fanno ombra o addirittura stoppano l'azione del governo. Berlusconi non ha mandato giù l'intervento di Napolitano "a gamba tesa" sul ddl intercettazioni, che ne ha determinato il rinvio. "Avremmo potuto approvarlo a fine mese, siamo stati costretti per colpa sua a rimandarlo a settembre. Ma state certi che a quel punto lo voteremo". Con modifiche? "Lo stretto necessario". E che dire della convocazione del governatore Mario Draghi sul Colle giusto alla vigilia della manovra economica? È stata giudicata come un'insopportabile ingerenza. E la scelta del giorno in cui rendere pubblica la lettera sulla sicurezza? A palazzo Chigi ne calcolano il timing: Napolitano aveva tempo fino al 30 luglio. Ha scelto d'intervenire giusto nel giorno in cui alla Camera si discuteva del contestano condono fiscale e del nuovo colpo di spugna sul falso in bilancio. L'effetto? Di fatto costringere il governo a fare marcia indietro.
Napolitano ha curato forma e sostanza. Nove punti critici, "dubbi di irragionevolezza e di insostenibilità" che non potevano lasciarlo "indifferente". Telefonate per annunciare il passo. L'assicurazione che, dal Quirinale, il testo non sarebbe uscito. Ma la reazione ai suoi scrupoli è una staffilata: "Un presidente che chiosa tecnicamente e politicamente le leggi non s'era mai visto. O la legge non va e la boccia, o va e la promulga. Non c'è via di mezzo". È l'ex presidente del Senato Marcello Pera, silente da tempo, a dar voce al mugugno: "La promulgazione con dubbi e commenti non esiste". L'ultima staffilata suona così: "Ormai Napolitano è ostaggio di Di Pietro e del Pd, ma sappia che tanto la gente continua a votare per noi". di Liana Milella
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