Aldo Bonomi, a un anno dal primo invio di militari in città, è migliorata la situazione?
«Se si vuole veramente risolvere il problema della sicurezza bisognerebbe uscire finalmente dal dibattito tra sicurezza percepita piuttosto che reale. Su questo scontro si è fatta una campagna politica che ha diviso la città. Non ero d’accordo allora sul ridurre tutto a questo contrapposizione e sarebbe altrettanto sbagliato riproporlo oggi facendo un bilancio. Bisogna sottrarsi alla dittatura imposta da questo iato Il risultato sarebbe un paradosso kafkiano. Il problema delle crisi delle forme di convivenza non è in continua evoluzione».
Cosa intende dire?
«È dai tempi dello scontro elettorale della sfida tra Formentini e Dalla Chiesta che non si riesce ad affrontare il vero problema. Un anno fa i luoghi messi sotto accusa erano i campi rom o Quarto Oggiaro. Oggi si scopre che il problema si è spostato nei condomini di viale Fulvio Testi una zona che non può più essere considerata solo una periferia estrema della città. Questo svela il fatto che il problema vero è fatto di due anime. L’apice dello scontro si è avuto con le due manifestazioni. Quella guidata dal sindaco sulla sicurezza e quella di segno opposto, provocata dopo l’uccisione del giovane Abdoul Guiebre, che aveva rubato un pacchetto di biscotti da un bar».
Cioè?
«Bisognerebbe discutere di più sulla visione che Milano dovrebbe avere per riuscire a crescere e assorbire questi problemi. Come ha già saputo fare in passato. Basterebbe riguardarsi alcune scene di film come Miracolo a Milano o Rocco e i suoi Fratelli per capirlo. Invece sui grandi temi dell’immigrazione e del mutamento della composizione sociale il dibattito langue».
Perfino il presidente del Consiglio dice no a una Milano multietnica.
«Mi limito a dire che nelle dinamiche sociali quando gli spazi vengono lasciati vuoti prima o poi vengono occupati da qualcosa. Se il centro si trasforma solo in una zona commerciale che si ferma a una certa ora della sera non ci si deve stupire che poi la sera non venga vissuto dai cittadini. Milano oggi deve discutere su cominciare a costruire un nuovo modello di vita».
Si spieghi meglio
«Basta interrogarsi sul fatto che proprio nelle zone dove sono sorti problemi di sicurezza non esiste più una rete commerciale. È chiaro che dove manca la primazìa dell’economia legale il controllo del territorio spesso passa a quello di quella illecita».
Cosa occorrerebbe fare?
«In questo momento a Milano si stanno confrontando tre modelli. Tre tipi di città che non riescono più a tirare i fili. Una volta era chiara la distinzione tra il ruolo del centro e delle periferie. Oggi c’è una comunità della cura, che parte dall’attività del cardinale Dionigi Tettamanzi a quella delle associazioni, del volontariato e delle forze dell’ordine che aiutano chi ha bisogno. È c’è una comunità della paura, rancorosa che si chiude in se stessa perché impaurita. Ma c’è anche una terza comunità nella città che mi piace definire operosa che non viene coinvolta. Se non saremo capaci di uscire da questo contrapposizione è chiaro che torneremo alla contraddizione che denunciavo all’inizio tra i problemi percepiti e quelli reali».
Dunque?
«Vanno coinvolti i protagonisti della modernizzazione di questa città. Penso al presidente dei commercianti Carlo Sangalli. Non dimentichiamo che Milano è una città dove nascono ancora più imprese che bambini. Questo vorrà pur dire qualcosa. Per fortuna. agli Stati generali dell’Expo si è discusso di come muoversi di fronte a questi cambiamenti. E soprattutto di come mobilitare quella parte della città che finora è rimasta in mezzo tra chi si scontrava. Se si continua a parlare solo di si finisce per rivolgersi solo a quella parte di quella che ho definito la comunità della paura. Invece occorre parlare a tutte e tre le anime della città, cercando di tenerle insieme e non di dividerle».
Vale a dire?
«Si discuta pure di tutto, ma a patto di ritrovare un vero concetto di cittadinanza. È un dibattito che deve riguardare l’Expo come la crisi economica. Quando mi riferisco alla comunità operosa penso a chi sta dentro ai processi di modernizzazione di questa città. SE guardiamo indietro non possiamo non notare che dalla crisi passate ci siamo salvati proprio perché abbiamo accolto gli immigrati che arrivavano dal Sud. Ecco perché mi appello al mondo dell’artigianato e del terziario». di Andrea Montanari
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