Davanti al Centro di identificazione ed espulsione [Cie] di Ponte Galeria, nella periferia di Roma, c’è un via-vai di veicoli: polizia, carabinieri, Croce rossa. Esce un uomo, indossa jeans e maglione arancione, ha in mano una busta di carta. Non sa come fare per raggiungere casa sua, il campo rom di via La Martora, a Roma. Ha appena passato due mesi nel Cie, è rom, è arrivato trent’anni fa dalla Bosnia. Dal carcere dov’era stato portato per reato di clandestinità, è stato poi trasferito nel Cie. Sa che rischia di tornarci presto. Il suo è un caso – vista la legislazione italiana – senza soluzione.
Dall’altra parte delle alte sbarre che circondano il Cie si entra in un edificio basso. Sulla destra, la sala dove si svolgono i colloqui con familiari, amici e avvocati. Spesso vengono negati, raccontano i detenuti, mentre gli avvocati d’ufficio sembrano essere una merce rara. Nell’infermeria del centro – dove sono detenuti 125 uomini e 105 donne, ma il totale cambia di continuo – il responsabile sanitario della Croce rossa spiega che c’è sì una recrudescenza dei casi di autolesionismo, da quando è stata allungata a sei mesi la durata di detenzione ma che in realtà sono pochi, i detenuti coinvolti, non più di una decina. Alle sue spalle su un manifesto della Croce rossa campeggia la scritta «Contro la discriminazione». «Il nostro compito – scandisce – è quello di garantire il diritto alla salute. Siamo della Croce rossa». Nello sciopero della fame della scorsa settimana, «non c’è stata nessuna situazione preoccupante», dice. In seguito allo sciopero di quattro giorni, «abbiamo mandato via sei detenuti» nel Cie di Bari, aggiunge. Per «gestire il disagio», una sola psicologa e molti psicofarmaci. Nel centro lavorano anche 12 operatori della Cri di giorno e 5 di notte. «Dovrebbe arrivare un contingente del corpo militare della Cri». di Sarah Di Nella, continua a leggere…
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