Come mai, si chiede Bauman, noi occidentali, ricchi e ben pasciuti, che viviamo circondati da sistemi di sicurezza e di controllo mai visti prima, abbiamo così tanta paura?
Paura di prendere l’influenza, paura di morire in un attentato, paura del diverso, degli immigrati, degli “zingari”, paura di essere derubati.
Tante nuove paure, recenti, nate all’inizio di questo terzo millennio, si sono rivelate fasulle: chi si ricorda più dell’antrace, tutti avevamo paura di aprire la posta manco fossimo il presidente degli Stati Uniti in persona.
Ve lo ricordate quando le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein stavano per colpire l’Occidente? Oppure l’assalto ai supermercati durante la prima guerra in Kuwait? Avevamo tutti paura di morire di fame.
Ora, dopo lo sventato attentato aereo di Detroit, è tornata la psicosi dell’11 settembre, una paura subdola che miete tante vittime. Controlli sempre più capillari negli aeroporti, apparati tecnologici in grado di spogliarci virtualmente per permettere alla security di scrutarci fin nel nostro più profondo intimo.
Nel 2002, un anno dopo l’attentato alle Torri Gemelle, prendo l’aereo per il Cairo, un viaggio di lavoro. Mi ritrovo incastrata tra due uomini arabi, quello alla mia destra, con la barba lunga, recita il Corano sussurrando. Divento inquieta, l’uomo alla mia sinistra se ne accorge: «Avrà mica paura?», mi interpella ridendo. Mi racconta che è egiziano, vive a Milano e sta tornando a casa per una vacanza. Scaccio le mie paure e mi immergo nella lettura di un bel romanzo di Ala al-Aswani Palazzo Yacoubian, gettandomi a corpo morto nelle atmosfere, negli odori e negli umori del Cairo.
L’uomo alla mia sinistra posa il Corano, fruga nello zainetto, prende un rasoio e va in bagno. Terrore puro. Cerco di distrarmi, tuffandomi nella lettura, ma le righe zeppe di caratteri disposti con ordine sulla pagina, si sovrappongono le une alle altre e non riesco più a cogliere il senso della frase. È passato un quarto d’ora, non resisto, chiamo l’hostess: «Il signore seduto qui è andato al bagno parecchio tempo fa, magari si è sentito male», il mio vicino di destra ora mi guarda con approvazione. Passa un altro terribile quarto d’ora, né l’hostess, né il lettore bulimico del Corano sono tornati. «Richiami la hostess, se lo faccio io, farei una brutta figura», mi incalza l’egiziano alla mia destra, che ora non mi prende più in giro. La richiamo, questa volta va a bussare al bagno, comincia ad essere un po’ preoccupata anche lei. Torna dopo qualche minuto: «Dice che si sta facendo la barba».
Che fare? Aspettiamo, tanto ormai sono passati tre quarti d’ora e se avesse voluto far saltare in aria l’aereo o accoltellare hostess, steward e piloti, lo avrebbe già fatto.
Dopo un’ora lo vediamo spuntare dal fondo del corridoio. Si siede come se niente fosse e ricomincia con la sua litania. Per un po’ sto zitta, poi sbotto quasi senza accorgermene: «Con i tempi che corrono, non mi sembra saggio andare al bagno con un rasoio in mano e starci un’ora, soprattutto se si sta leggendo il Corano su un aereo, perché i viaggiatori si spaventano».
Mi guarda stupito, allibito, contrito: «La mia religione è la religione dell’amore e non della violenza», inizia a parlare senza interrompersi in un inglese incomprensibile e tiene banco per due ore. Arrivo al Cairo sfinita.
Non è successo niente, proprio niente, anzi ho avuto l’occasione di chiacchierare con un musulmano ortodosso, non un terrorista, senza nessuna mediazione mediatica.
Camus ha scritto che il Novecento era il secolo della paura, ma lui ha attraversato la seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista, tempi in cui in Europa c’erano campi di sterminio e pogrom. Noi occidentali nati dopo gli anni Cinquanta no, di cose così non ne abbiamo mai viste. Cosa c’è da aver tanta paura nelle nostre case blindate e tecnologiche, perché questo rifiuto dello straniero, del diverso, dell’immigrato? Sì, perché questa giusta caccia al terrorista, così com’è trasmessa dai media, ci porta a una diffidenza nei confronti di tutti gli immigrati. Perché non è irreale la paura degli attentati, ma è il panico che la circonda a essere sovradimensionato.
Solo qualche secolo fa, le popolazioni che vivevano nei villaggi o anche nelle città erano vittime del passaggio degli eserciti di mercenari affamati di cibo, sesso e violenza. Le donne sulle coste liguri scrutavano il mare con il timore che vascelli saraceni spuntassero all’orizzonte. Sì che c’era da aver paura ad essere una contadina delle Cinque Terre nella prima metà del secondo millennio.
Ma noi? cosa c’entriamo con tutto questo?
Tutte queste paure ci deconcentrano da una minaccia meno visibile ma in prospettiva molto più inquietante: fra qualche decennio, se non eliminiamo gli sprechi, gli esseri viventi sul pianeta avranno tutti vita dura.
Non ci sarà più nessuna differenza tra l’imprenditore padano doc e il marocchino disoccupato, tra il lumbard e il terùn, tra uno statunitense e un cinese. Tutti respireremo la stessa irrespirabile aria. Mangeremo lo stesso immangiabile cibo. Berremo la stessa imbevibile acqua. Dormiremo sonni inquieti. Far l’amore ci costerà sempre più fatica. Il fallimento del vertice di Copenaghen insegna: «Se il clima fosse una banca, l’avrebbero già salvato», dichiarazione geniale del pur equivoco Hugo Chavez. Di tutto questo sì, certo, c’è da avere una gran paura. Come mai, si chiede Bauman, noi occidentali, ricchi e ben pasciuti, che viviamo circondati da sistemi di sicurezza e di controllo mai visti prima, abbiamo così tanta paura?
Paura di prendere l’influenza, paura di morire in un attentato, paura del diverso, degli immigrati, degli zingari, paura di essere derubati.
Tante nuove paure, recenti, nate all’inizio di questo terzo millennio, si sono rivelate fasulle: chi si ricorda più dell’antrace, tutti avevamo paura di aprire la posta manco fossimo il presidente degli Stati Uniti in persona.
Ve lo ricordate quando le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein stavano per colpire l’Occidente? Oppure l’assalto ai supermercati durante la prima guerra in Kuwait? Avevamo tutti paura di morire di fame.
Ora, dopo lo sventato attentato aereo di Detroit, è tornata la psicosi dell’11 settembre, una paura subdola che miete tante vittime. Controlli sempre più capillari negli aeroporti, apparati tecnologici in grado di spogliarci virtualmente per permettere alla security di scrutarci fin nel nostro più profondo intimo.
Nel 2002, un anno dopo l’attentato alle Torri Gemelle, prendo l’aereo per il Cairo, un viaggio di lavoro. Mi ritrovo incastrata tra due uomini arabi, quello alla mia destra, con la barba lunga, recita il Corano sussurrando. Divento inquieta, l’uomo alla mia sinistra se ne accorge: «Avrà mica paura?», mi interpella ridendo. Mi racconta che è egiziano, vive a Milano e sta tornando a casa per una vacanza. Scaccio le mie paure e mi immergo nella lettura di un bel romanzo di Ala al-Aswani Palazzo Yacoubian, gettandomi a corpo morto nelle atmosfere, negli odori e negli umori del Cairo.
L’uomo alla mia sinistra posa il Corano, fruga nello zainetto, prende un rasoio e va in bagno. Terrore puro. Cerco di distrarmi, tuffandomi nella lettura, ma le righe zeppe di caratteri disposti con ordine sulla pagina, si sovrappongono le une alle altre e non riesco più a cogliere il senso della frase. È passato un quarto d’ora, non resisto, chiamo l’hostess: «Il signore seduto qui è andato al bagno parecchio tempo fa, magari si è sentito male», il mio vicino di destra ora mi guarda con approvazione. Passa un altro terribile quarto d’ora, né l’hostess, né il lettore bulimico del Corano sono tornati. «Richiami la hostess, se lo faccio io, farei una brutta figura», mi incalza l’egiziano alla mia destra, che ora non mi prende più in giro. La richiamo, questa volta va a bussare al bagno, comincia ad essere un po’ preoccupata anche lei. Torna dopo qualche minuto: «Dice che si sta facendo la barba».
Che fare? Aspettiamo, tanto ormai sono passati tre quarti d’ora e se avesse voluto far saltare in aria l’aereo o accoltellare hostess, steward e piloti, lo avrebbe già fatto.
Dopo un’ora lo vediamo spuntare dal fondo del corridoio. Si siede come se niente fosse e ricomincia con la sua litania. Per un po’ sto zitta, poi sbotto quasi senza accorgermene: «Con i tempi che corrono, non mi sembra saggio andare al bagno con un rasoio in mano e starci un’ora, soprattutto se si sta leggendo il Corano su un aereo, perché i viaggiatori si spaventano».
Mi guarda stupito, allibito, contrito: «La mia religione è la religione dell’amore e non della violenza», inizia a parlare senza interrompersi in un inglese incomprensibile e tiene banco per due ore. Arrivo al Cairo sfinita.
Non è successo niente, proprio niente, anzi ho avuto l’occasione di chiacchierare con un musulmano ortodosso, non un terrorista, senza nessuna mediazione mediatica.
Camus ha scritto che il Novecento era il secolo della paura, ma lui ha attraversato la seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista, tempi in cui in Europa c’erano campi di sterminio e pogrom. Noi occidentali nati dopo gli anni Cinquanta no, di cose così non ne abbiamo mai viste. Cosa c’è da aver tanta paura nelle nostre case blindate e tecnologiche, perché questo rifiuto dello straniero, del diverso, dell’immigrato? Sì, perché questa giusta caccia al terrorista, così com’è trasmessa dai media, ci porta a una diffidenza nei confronti di tutti gli immigrati. Perché non è irreale la paura degli attentati, ma è il panico che la circonda a essere sovradimensionato.
Solo qualche secolo fa, le popolazioni che vivevano nei villaggi o anche nelle città erano vittime del passaggio degli eserciti di mercenari affamati di cibo, sesso e violenza. Le donne sulle coste liguri scrutavano il mare con il timore che vascelli saraceni spuntassero all’orizzonte. Sì che c’era da aver paura ad essere una contadina delle Cinque Terre nella prima metà del secondo millennio.
Ma noi? cosa c’entriamo con tutto questo?
Tutte queste paure ci deconcentrano da una minaccia meno visibile ma in prospettiva molto più inquietante: fra qualche decennio, se non eliminiamo gli sprechi, gli esseri viventi sul pianeta avranno tutti vita dura.
Non ci sarà più nessuna differenza tra l’imprenditore padano doc e il marocchino disoccupato, tra il lumbard e il terùn, tra uno statunitense e un cinese. Tutti respireremo la stessa irrespirabile aria. Mangeremo lo stesso immangiabile cibo. Berremo la stessa imbevibile acqua. Dormiremo sonni inquieti. Far l’amore ci costerà sempre più fatica. Il fallimento del vertice di Copenaghen insegna: «Se il clima fosse una banca, l’avrebbero già salvato», dichiarazione geniale del pur equivoco Hugo Chavez. Di tutto questo sì, certo, c’è da avere una gran paura. di Laura Guglielmi
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