giovedì 2 febbraio 2012

Mantova, Il Giorno della Memoria 2012

Pubblichiamo la prolusione tenuta a Mantova dallo storico Luca Bravi (Università di Chieti), in occasione del Consiglio Provinciale e del Consiglio Comunale aperti del 27 gennaio 2012 al Teatro Bibiena. Durante la seduta dei Consigli aperti sono intervenuti anche il Presidente del Consiglio Comunale di Mantova, il Presidente del Consiglio Provinciale di Mantova, il Presidente della Provincia Mantova e il Sindaco Mantova.


Ringrazio il comune e la provincia di Mantova ed il tavolo per il Giorno della Memoria per l’invito a questa importante iniziativa.

Il Porrajmos, cioè la persecuzione e lo sterminio su base razziale dei rom e dei sinti nel nazi-fascismo è una pagina ancora poco conosciuta della storia europea e del nostro paese, ma negli ultimi dieci anni le ricerche effettuate dimostrano che questo tema deve essere naturalmente inserito nella riflessione legata alla memoria europea e dunque al Giorno della Memoria.

Il Porrajmos non denigra la Shoah e non ne diminuisce la centralità all’interno della costruzione della memoria europea oggi.

Shoah e Porrajmos si illuminano a vicenda e costruiscono insieme la memoria di quello che può essere inquadrato all’interno del riferimento ad un crimine contro l’umanità intera.

Il concetto di crimine contro l’umanità non corrisponde allo scontato senso di colpa o di pietà per le vittime di una violenza, ma nacque proprio in seguito ai campi di sterminio ed alle persecuzioni del Novecento in riferimento a qualcosa di più specifico a livello legislativo: se immaginiamo l’umanità come un mosaico formato da singole tessere che rappresentano la diversità umana con le proprie specificità a livello culturale, religioso o di origine, il tentativo di sottrarre anche una singola tessera a questa molteplicità corrisponde ad un crimine non contro il singolo gruppo ma contro l’intera umanità.

Ed allora di Porrajmos si può parlare anche per voce ebraica, per una comunanza di destini che era già evidente agli internati: noi oggi sappiamo che nella notte tra il primo ed il due agosto 1944 avvenne la liquidazione di tutti i rom ed i sinti presenti ad Auschwitz-Birkenau, perché Piero Terracina, ebreo italiano internato nel lager, ne fu testimone e lo ha raccontato perché anche quei fatti potessero inscriversi nella memoria europea.

Ed oggi sappiamo che furono 23.000 i rom ed i sinti che furono internati nello Zigeunerlager cioè nel “campo degli zingari” di Birkenau perché un ebreo polacco, il giorno prima della liquidazione di quell’area, sotterrò il libro mastro del campo che riportava il nome e cognome degli prigionieri per poi tornare a recuperarlo quando Birkenau stava diventando un luogo della memoria.

Il Porrajmos è oggi conosciuto anche per voce diretta di rom e sinti, ad esempio attraverso la testimonianza di Otto Rosenberg, una storia personale che ripercorre le tappe che portarono allo sterminio dei sinti e dei rom in Germania. Nato nel 1927, Rosenberg era un sinto tedesco che fu privato della cittadinanza in riferimento alle leggi di Norimberga che vennero applicate anche ai cosiddetti “zingari”. Una emarginazione che portò, per legge, alla costituzione di campi di sosta forzata nelle maggiori cittadine del Reich in cui ammassare rom e sinti arrestati non in riferimento ad un comportamento criminale attuato dal singolo, ma a partire dalla considerazione che l’intero gruppo di quelli che già erano etichettato come “gli zingari” fosse composto da presunti criminali da tenere sotto controllo per la sicurezza pubblica. Quindi arresti preventivi effettuati in riferimento a supposti caratteri ereditari comuni.

Una Unità d’igiene razziale diretta dallo psichiatra infantile Robert Ritter e interna al Ministero della sanità del Reich offrì le basi scientifiche per dichiarare rom e sinti inferiori per razza in quanto portatori di due caratteri ereditari tramandati di padre in figlio: l’istinto al nomadismo e l’asocialità.

Le conclusioni dell’unità di ricerca definirono la “questione zingari” un problema di razza che, diranno, dovrà trovare soluzione come stiamo trovando soluzione al problema ebraico; il metodo più semplice, affermò Eichmann, colui che organizzava i convogli verso i campi, è agganciare una tradotta di “zingari” ai vagoni che già trasportano ebrei.

Furono queste teorie razziali che portarono alla promulgazione di due decreti firmati da Heinrich Himmler, capo delle SS, uno nel 1938 in cui specificò i criteri da utilizzare per definire la pericolosità di rom e sinti: un ottavo di “sangue zingaro” era sufficiente per essere avviati verso la successiva deportazione. L’altro decreto emanato il 16 dicembre 1942 indicò Auschwitz-Birkenau come luogo definitivo di deportazione per i rom ed i sinti che dai campi di sosta forzata si trovavano già all’interno di tutti i campi di concentramento nazisti.

Il decreto di Auschwitz rappresentò la nascita dell’area riservata agli internati rom e sinti, quello Zigeunerlager di Birkenau alla cui liquidazione finale ha assistito Piero Terracina.

L’Italia fascista, ed è una pagina di storia sconosciuta della nostra nazione, è stata anch’essa in stretto collegamento con la ricerca razziale relativa ai rom ed ai sinti, sviluppando proprie teorizzazioni attraverso l’azione di cattedratici universitari che scrissero articoli su questa tematica.

Nel 1939 Renato Semizzi, professore di medicina sociale a Trieste, teorizzò l’inferiorità razziale di rom e sinti indicando “gli zingari” come portatori di uno sfavorevole apporto razziale, dirà: sono vagabondi, ladri, nomadi, truffatori per razza. Tali elementi riconducibili all’istinto al nomadismo ed all’asocialità come caratteri ereditari teorizzati in Germania, insistevano su una inferiorità che era anche morale e psichica.

Nel 1940 sarà il più noto antropologo Guido Landra, colui che redasse il Manifesto degli scienziati razzisti ad intervenire dalle pagine de La Difesa della Razza per inserire il “problema zingari” italiano all’interno della questione del meticciato, indicando in rom e sinti un pericolo di imbastardimento per la razza italica per la loro modalità di vita nomade e per la loro abitudine al furto; elementi che venivano indicati come ereditari e dunque caratterizzanti l’intero gruppo, al di là delle effettive azione messe in atto dal singolo individuo.

La promulgazione delle leggi razziali del 1938 aveva infatti rappresentato un importante giro di vite anche per la “questione zingari” fascista: se nel 1926 il governo aveva ordinato di allontanare carovane di “zingari stranieri” che tentavano di entrare nel regno attraverso i respingimenti, l’11 settembre 1940, un ordine emanato dal capo della Polizia, Arturo Bocchini, intimava di procedere al rastrellamento immediato di tutti “gli zingari italiani o stranieri” e di porli sotto controllo all’interno di campi di concentramento che dovranno sorgere sull’intera penisola.

Si tratta di un passaggio fondamentale perché il concetto di “zingaro” definito nomade, asociale e non cittadino a livello popolare trova applicazione in un ordine di polizia che annulla definitivamente anche l’appartenenza nazionale, per riferirsi all’immagine condivisa dello “zingaro nomade” che in quanto tale non appartiene ad alcuno Stato ed è di per sé soggetto pericoloso. E’ un concetto che torna spesso anche nel tempo presente: il riferimento al nomadismo utilizzato per negare la cittadinanza.

Rom e sinti vengono dunque internati in campi di concentramento che sorgono in Italia dalla metà del 1940 e per diretta responsabilità del fascismo italiano, in riferimento a concetti di inferiorità razziale.

Ed è a questo punto che il Porrajmos in Italia torna ad essere testimoniato per voce di rom e di sinti: Gnugo Giacomo de Bar è stato il primo a raccontare dell’esistenza di un campo riservato all’internamento di rom e sinti a Prignano sulla Secchia, in provincia di Modena, dove la sua famiglia fu rinchiusa insieme ad altri sinti appartenenti alle famiglie Suffer, Bonora, Esposti, Argan, Bianchi, Colombo, De Barre, Franchi, Innocenti, Lucchesi, Marciano, Marsi, Relandini, Tonoli, Torre; tutti cognomi che rimandano alla cittadinanza italiana. Oggi i documenti e la lista degli internati dimostra questa pagina di storia italiana.

Milka Goman, tuttora apolide dopo sessant’anni vissuti in Italia nei campi nomadi romani, ha invece testimoniato nel 2005 circa l’esistenza di un campo di concentramento ad Agnone, in provincia di Isernia, riservato anche questo alla categoria degli “zingari”, all’interno del quale vide morire un figlio ed ammalarsi il marito. Ed anche in questo caso sono stati rintracciati i documenti che dimostrano che Agnone fu pensato dal 1942 come luogo d’internamento specifico per “zingari” all’interno dell’ex convento di San Bernardino.

Le liste dei prigionieri e la voce, tra le altre, di Zlato Levak e di Benito Brejdic hanno invece permesso di ricostruire l’esistenza di un luogo d’internamento riservato a rom e sinti a Tossicia, in provincia di Teramo.

Le liste rintracciate in tutti questi campi dimostrano l’internamento di almeno 500 persone sotto la specifica cattegoria di “zingari” tanto che sulle schede personali dei campi non veniva più riportata la cittadinanza ma l’appartenenza alla categoria.

Altre voci di rom e sinti raccontato ulteriori esperienze di internamento a Gries (Bolzano), a Visco e Gonars (Udine), a Ferramonti di Tarsia, a Perdasdefogu (Sardegna) e sulle isole Tremiti.
L’esperienza dei campi di concentramento fascisti in Italia si concluse dopo l’otto settembre del 1943, quando l’armistizio fece precipitare nel caos il sistema concentrazionario ed i prigionieri riuscirono a scappare.

Con la nascita della repubblica di Salò, rom e sinti che si trovavano nel nord del paese narrano di ulteriori arresti e di vicende personali che raccontano l’invio verso i campi di concentramento ed i campi di sterminio del Reich. Alcuni di coloro che erano usciti dai campi si unirono invece alla lotta partigiana; ce lo ricordano le vicende personali di due fra molti: Giuseppe Levacovich e Giuseppe Catter.

Germania ed Italia erano comunque in contatto; scriveva Guido Landra nel 1940: in Germania stanno svolgendo un’inchiesta (si riferiva agli studi razziali dell’unità d’igiene di Robert Ritter) e stanno indicando un luogo specifico verso cui indirizzare tutti gli zingari (quel luogo sarebbe stato infine Birkenau), sarebbe auspicabile che un’inchiesta del genere fosse svolta anche in Italia e che fossero presi i relativi provvedimenti.

Dopo il 1945 sul Porrajmos cala il silenzio, i colpevoli vengono riabilitati dalla Germania che rinasce dalle ceneri della guerra, e considerati esperti in fatto di rom e sinti, mentre nella stessa nazione prende corpo l’idea che l’internamento di rom e sinti ad Auschwitz Birkenau non fosse determinato da una politica di stampo razziale ma bensì di prevenzione e pubblica sicurezza. Questo ha negato i risarcimenti dovuti a rom e sinti. Poi la mole di documentazione raccolta ha permesso che il Porrajmos fosse dichiarato persecuzione di stampo razziale nella nazione tedesca.

In Italia il silenzio è stato assordante: la legge sul Giorno della Memoria non nomina il Porrajmos ed i luoghi dell’internamento non sono diventati luogo della memoria. Un esempio per tutti: il campo di concentramento di Agnone riservato ai rom ed ai sinti oggi è una casa di cura e soltanto il ritorno di Milka Goman nel 2005 ha riportato alla memoria dei paesani la vicenda del prigionia. Il Parlamento italiano ha ricordato l’internamento di rom e sinti soltanto il 16 dicembre 2009 e dall’aprile del 2010 e per opera della Federazione Rom e Sinti Insieme e dell'Amministrazione comunale, soltanto Prignano sulla Secchia oggi ha una targa nel luogo del campo.

Ma se sulla memoria vogliamo riflettere in maniera costruttiva c’è ancora qualcosa di più importante da affermare oltre la ricostruzione storica: questo nostro presente che noi indichiamo come il “dopo Auschwitz” conserva una continuità di stereotipi e di costruzione di categorie sociali in comune con quel passato: peri rom ed i sinti sono le etichette di nomadi e asociali, ma altre categorie come gli omosessuali continuano ad essere colpite dai medesimi stereotipi e l’antisemitismo, seppur esistano maggiori anticorpi nella società, torna ad essere sviluppato e teorizzato da gruppi xenofobi.

Ed allora non si può non riflettere su quale ruolo vogliamo che assuma la memoria non ieri ma oggi. Rischiamo seriamente di creare uno stanco “memorificio” istituzionale, immobile e rispondente alle logiche di potere. In tal caso dovremo rassegnarci ed ammettere che saremo in grado solo di onorare le vittime cadute, ma non incideremo sul presente e sul futuro.

A dodici anni dall’istituzione del Giorno della Memoria penso che dovremo pensare ad un “nuovo patto per la memoria” responsabile e riflettutto che coinvolga le istituzione, ma prima ancora l’ambito educativo e sociale. Un nuovo patto che includa e non escluda e che sia strumento di riflessione sul passato, ma per guardare e decostruire il presente e progettare il futuro. Un patto per la memoria che sappia parlare di Auschwitz e contemporaneamente fornire strumenti per contrastare apertamente la logica che porta a nuovi pogrom, come quello ai danni dei rom a Torino, come pure a nuove e vecchie forme di razzismo che sono esplose anche nella civilissima Firenze ai danni di due senegalesi colpevoli ancora nel 2012 di avere un diverso colore della pelle. Di tutto questo declinare le nostre azioni nel presente abbiamo bisogno, in memoria della Shoah, del Porrajmos e di una legge per la memoria che voglia opporsi ad ogni forma di distruzione e di categorizzazione umana.

Grazie, Luca Bravi

Nessun commento: