venerdì 30 maggio 2008

Venezia, i Sinti: «è Favaro casa nostra»

«Vogliono mandarci via, rimandarci a casa nostra, ma dove? È Favaro casa nostra...». «Aspettiamo questo momento da così tanti anni che finché non lo vedo costruito il nuovo campo, non ci credo». «Da qui a 500 metri più in là cosa cambia? Ci conoscono tutti, i nostri figli vanno tutti a scuola nei dintorni, le donne vanno a fare la spesa nei supermercati di Favaro, noi andiamo a tagliarci i capelli dai barbieri della città, beviamo il caffè nei bar, e pure lo spritz». «Noi non viviamo con i soldi del Comune, ma con il nostro lavoro». «Vado anche a donare il sangue, io. Scrivilo, scrivilo che se qualcuno di voi “gaggi” [così vengono chiamati coloro che non sono sinti] ha bisogno di sangue deve ringraziarmi…».
A parlare questa volta sono loro: i residenti del “campo nomadi” di via Vallenari. Siamo entrati nel “campo”, accompagnati dagli operatori dell’Etam che da anni seguono per il Comune la comunità sinta, per ascoltare le voci dei suoi residenti. Sulla scia dei disordini avvenuti in alcuni insediamenti rom a livello nazionale, anche il “campo nomadi” di via Vallenari è stato in questi giorni investito da polemiche, proprio in occasione dell’inizio dei lavori per il nuovo “campo” previsto dal Comune.
Anzi per il “Villaggio dei sinti”: il Comune realizzerà un villaggio dignitoso, con bagni privati e strutture prefabbricate ordinate, a poche centinaia di metri da quello attuale, più distante dalle abitazioni e più vicino a Favaro che è il paese a cui si sentono più legati coloro che vivono da 40 anni in via Vallenari.

Più che accampamento un camping. Chi è stato almeno una volta in un qualsiasi campeggio sul litorale veneziano non troverebbe molto diverso il campo di via Vallenari: casette prefabbricate e roulottes con la veranda, piccoli cortili personalizzati e decorati con fiori, persino una statuetta della Madonna adornata con lumini rossi, qualche cane che gironzola libero, bambini che giocano, donne sedute che chiacchierano insieme.
Un uomo attraversa la strada interna a petto nudo con l’asciugamano sotto braccio: è appena rientrato dal lavoro e va a fare la sua doccia. Sembrerebbe davvero un camping se non fosse che quelle 38 famiglie non si trovano lì in villeggiatura, ma da ormai 40 anni risiedono lì, arrangiate alla meno peggio, con i bagni in comune, per lo più diroccati e con l’acqua fredda (vedi la foto): «Pensi che ci piacciano i bagni in comune? - dice Paolo, uno degli uomini del campo - Pensi che non vorremmo un bagno privato, pulito e accogliente, come tutti? Non viviamo nel fango per scelta, non siamo sporchi, non siamo ladri, siamo gente che lavora».
Via Vallenari, una comunità tranquilla. Siamo all’aperto, in un cortile di ghiaia bianca nella zona più interna del “campo”. I capifamiglia si siedono intorno a un tavolo di legno color verde bosco, all’ombra di un salice, mentre alcuni bambini giocano poco distante. Maria Paola, la moglie di Paolo, che siede anche lei taciturna intorno al tavolo, apprensiva, ogni tanto rimprovera i bambini per paura che si facciano male.
«Casi di furto, omicidi, violenze, rapine: quando mai è stato coinvolto qualcuno della nostra comunità di via Vallenari? Anzi, a dir la verità siamo noi a guardare il telegiornale la mattina e sentire ogni giorno di questi casi compiuti da italiani… siamo noi ad essere preoccupati per le nostre famiglie e i nostri figli… altro che ladri di bambini… Noi lavoriamo tutto il giorno: ogni famiglia ha un camioncino con il quale gli uomini vanno a fare la raccolta del ferro. Abbiamo un patentino di Veritas, noi lo raccogliamo e poi lo consegnamo alla ditta Colombara che ci paga: facciamo un servizio alla città, nel Comune di Venezia. Le donne invece restano nel campo, si occupano della casa e dei bambini, alcune lavorano come addette alle pulizie».
Molti i pregiudizi da sfatare. A sedersi intorno a un tavolo con loro si possono smantellare velocemente parecchi pregiudizi. Innanzitutto si scopre che i sinti di via Vallenari non sono le stesse persone che si vedono girare per la città a chiedere l’elemosina e che spesso si fingono zoppicanti e storpi per impietosire.
I sinti non sono rumeni; le persone che risiedono al campo sono principalmente appartenenti a tre famiglie, di origine Istriana: «Pensa te – dice Paolo – i nostri nonni erano italiani…». Per cercare nei loro tratti somatici elementi identificati come “tipici” dei nomadi bisogna fare un po’ di fatica.
La carnagione scura, i capelli mori sono un po’ troppo poco per definire qualcuno come “zingaro”. Tra i giovani e i bambini è praticamente impossibile: molti di loro hanno i genitori misti e poi vestono in modo curato, soprattutto i ragazzi: abiti firmati, acconciature alla moda… Per non parlare poi della lingua che parlano: il dialetto veneziano.
«Nessuno è santo - dice uno dei più anziani - anche noi possiamo avere qualche problema ogni tanto, in passato possono esserci anche stati episodi spiacevoli, ma mai di tale gravità da giustificare un così forte pregiudizio: è vero abbiamo fatto forse un po’ di confusione per qualche festa, ma non abbiamo mai rubato nulla o violentato nessuno. Possono controllare, che chiedano alla polizia». «Fino a 5 anni fa - continua Paolo - pochissimi sapevano che eravamo qui. Poi hanno costruito dei condomini a ridosso del campo. E allora siamo diventati troppo invadenti, troppo rumorosi, troppo dediti alla vita all’aperto da disturbare le abitudini di coloro che vivevano negli appartamenti con la terrazza che dava sul campo. Ma noi eravamo qui prima di loro. Hanno cominciato ad accusarci, leggiamo sui giornali le dichiarazioni di persone che ci conoscono e che credevamo amici, ma che ora ci voltano le spalle».
«Comunque ce ne andiamo volentieri – prosegue un altro – ora che ci spostano nel nuovo villaggio: siamo contenti, finalmente avremo dei bagni privati, dove poter lavare i nostri figli d’inverno senza farli morire di freddo».
Qualche episodio spiacevole con la polizia. Il fatto che la comunità di via Vallenari non abbia mai avuto problemi con la giustizia non li esenta dal ricevere puntualmente una o due volte la settimana la visita della polizia: «Passa di qua la pattuglia – dice Paolo – controllano. E non trovano niente. Noi non abbiamo problemi: che passino pure, li salutiamo. Il problema è quando vengono con la violenza: è capitato anni fa che ci hanno caricati tutti su due pullman per farci fotografare e schedare. Tutti, anche i bambini, a spintoni trattandoci come criminali. La polizia era addirittura in divisa antisommossa. Poi l’anno scorso fecero un controllo in tutti i campi del Veneto: vennero all’alba, era freddo, e ci buttarono tutti fuori dal letto in malo modo, eravamo tutti in pigiama, buttarono per aria tutto, ci fecero altre foto e comunque non trovarono nulla. In altri campi qualcosa saltava fuori, ma qui da noi non trovarono nulla. Questo per dire che non bisogna mai generalizzare. Ci sono anche i criminali, i ladri, come ci sono tra di voi, ma non in via Vallenari».
Le difficoltà di integrazione però esistono. «E pensare che noi vorremmo semplicemente lavorare e stare con la nostra famiglia – continua Paolo – ci piacerebbe anche fare altri lavori, abbiamo più volte chiesto in giro e a prima vista nessuno ci crea problemi, ma quando viene fuori il nostro cognome, dove viviamo e chi siamo ci penalizzano».
Migliori risultati si ottengono sul piano scolastico, dove l’integrazione è avviata da tanti anni e comincia a produrre i primi risultati: «I nostri figli vanno tutti a scuola – dice Maria Paola – e anche all’asilo, ormai». Nonni e genitori non hanno frequentato la scuola, perché non fa parte della loro cultura, ma piano piano questa abitudine si sta radicando.
«Qualche problema – continua – c’è invece alle medie, dove i ragazzi non riescono ad integrarsi e spesso dopo il primo anno abbandonano lo studio, per riprenderlo più avanti e ottenere la licenza di terza media e poter quindi accedere ad alcune professioni. Alle elementari va molto meglio, grazie anche agli operatori del Comune che vengono ad aiutare i bambini con i compiti».
Un diverso concetto di “casa”. In questa direzione è stato portato avanti il progetto del nuovo villaggio, al quale hanno collaborato con il Comune gli stessi residenti, evidenziando elementi e necessità che altri non avrebbero potuto intuire. Per questo lo aspettano con trepidazione e non vedono l’ora di potersi trasferire per poter vivere dignitosamente ma anche nel rispetto di una loro tradizione, secondo la quale anche il giardino è “casa”.
Ma quando è stato il momento di decidere se trasferirsi nel nuovo villaggio o se rientrare nelle graduatorie per la casa comunale per molti è stata una scelta sofferta. Dietro questa scelta c’è la storia di un popolo, e forse è un po’ troppo facile chiedere semplicemente di “adattarsi”…
«Fino all’ultimo ci abbiamo riflettuto – dice Paolo – ma alla fine abbiamo deciso che non potevamo farcela. Alcune famiglie già in passato si sono trasferite in appartamento, ma per alcuni è stato traumatico, c’è chi non riusciva ad avvicinarsi alle finestre perché soffriva di vertigini: non siamo abituati a vivere con qualcuno sotto o sopra di noi, non siamo abituati all’altezza, e soprattutto non siamo abituati a vivere al chiuso… Ci piace stare tutti insieme con le nostre famiglie: se andassimo a vivere in appartamento dovremmo separarci. E poi abbiamo già perso tutte le nostre tradizioni, almeno questa vorremmo mantenerla…».
In sette famiglie invece hanno deciso di fare il passo. «Non si può essere “zingari” per sempre – dice un uomo appartenente a una di quelle sette famiglie che ha fatto domanda per trasferirsi in appartamento – ho scelto l’appartamento perché ho pensato ai miei figli e ai miei nipoti: il mondo cambia e dobbiamo anche noi civilizzarci. Spero in questo modo incontreremo meno pregiudizi».
Più conoscenza per combattere i pregiudizi. «Non è facile vivere sempre con il pregiudizio sulla testa – dice con una vena di amarezza Paolo – cosa dobbiamo fare per far capire chi siamo? Basterebbe solo che la gente sapesse la verità . Ci sono molte persone che ci conoscono e sanno come viviamo, il mio medico ad esempio viene spesso a cena a casa mia e non ha paura perché mi conosce».
Poi conclude: «Ringraziamo il sindaco e tutti coloro del Comune che finora ci hanno aiutato. Ringraziamo anche il Patriarca che è stato qui con noi, è stata una bella giornata di festa. E a coloro che continuano a vederci con diffidenza diciamo: che vangano qui a vedere, che vengano a conoscerci prima di parlare e di giudicare». di Francesca Bellemo, Gente Veneta, n. 23 del 2008 (in foto il libro pubblicato dalla Provincia di Venezia)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

http://www.video.mediaset.it/
Del video "E' ostaggio dei nomadi"
Chissà se anche questi nomadi ormai dopo quello che hanno fatto, allacciandosi abusivamente ad acqua ecc... si considerano a casa loro?!
E la gente si deve fare scortare dalla polizia per rientrare in casa!!
Vergogna!!

Anonimo ha detto...

...quale video?

Anonimo ha detto...

Credo che si riferisca a questo servizio del Tg5:
http://www.video.mediaset.it/video.html?sito=tg5&data=2008/05/30&id=27047&categoria=tg5/servizio
(attenzione, allargare bene la pagina, l'indirizzo URL è piuttosto lungo)

In ogni caso non capisco che c'entri con il villaggio sinto di Favaro, organizzato dal comune: quella di Padova è una realtà provvisoria e "d'emergenza" anche nelle intenzioni dei rom.

Magar