E’ uscito il numero due della newsletter di “Articolo 3, osservatorio sulle discriminazioni”, fondato a Mantova il mese scorso. Nella newsletter troverete alcuni approfondimenti sulle discriminazioni a Mantova e non solo. La redazione è formata da Maria Bacchi; Antonio Benassi; Carlo Berini; Angelica Bertellini; Barbara Nardi; Fabio Norsa; Eva Rizzin. Per ricevere la newsletter a cadenza quindicinale scrivete a osservatorio.articolo3@gmail.com. Di seguito l’intervento di Maria Bacchi che apre questo numero
I nomi dei bambini. Chiamare i bambini per nome è bello. Quante e quanti di noi hanno un po’ sofferto a scuola nel sentirsi chiamati per cognome da insegnanti troppo arcigni. Il nome proprio, diceva Roland Barthes, “come la voce, come l’odore, sarebbe il termine di un languore, l’ultimo sospiro che resta delle cose”. Quando il nostro nome -ciò che ci connota più profondamente, ciò che nasce con noi- diventa un pericolo, credo insorga nella parte più profonda di noi un tumulto doloroso e incomprensibile.
Le bambine e i bambini ebrei per salvarsi la vita, braccati come piccole prede durante l’occupazione nazifascista del ’43, hanno dovuto accettare di portare un nome falso per tentare di passare inosservati attraverso i mille controlli a cui erano sottoposti. Qualcuno non riuscì mai a sentirsi quell’altro; tanto che Donatella Levi, in fuga con la madre verso Roma, a un signore che gentilmente le chiedeva il nome, si trovò a rispondere :- Vuole sapere il nome vero o il nome falso?- Aveva 5 anni, non poteva capire il pericolo, sentiva solo che era intollerabile dover temere il proprio nome. Dopo lunghi mesi di clandestinità ci fu il ritorno; a distanza di anni affiorarono i ricordi: “Tornare è riavere il proprio nome vero, ma non crederci più in modo definitivo” (Donatella Levi, Vuole sapere il nome vero o il nome falso?, Il lichene, Padova, 1995)
E lo stesso accade nella ex Yugoslavia dai primi anni Novanta in poi: in Bosnia, in Kosovo, chiamarsi Yasmina Sarahatlic o Zoran Petrovic, tanto per fare due nomi a caso, poteva cambiare il tuo destino; poteva voler dire l’uccisione immediata, la violenza, o la salvezza.
Nei giorni scorsi mi sono trovata un paio di volte a discutere con un gruppo di ragazze e di ragazzi che vivono in quello che comunemente viene chiamato il ‘campo nomadi’ di Mantova; mi si è stretta la gola quando i miei giovani interlocutori hanno proposto di nuovo questa terribile questione: chi mi dà il coraggio di essere me stesso, col mio nome e il mio indirizzo, se la maggior parte delle persone pensa che quelli come me siano delinquenti da allontanare? Le ragazze e i ragazzi del campo, quasi tutti sinti, uno solo rom, hanno voluto discutere delle questioni che in genere i loro coetanei amano porre: le amicizie, i primi amori, lo sport, il futuro, la scuola, il rapporto non sempre facile con gli adulti. Ma un tema aleggiava intorno e piombava sui nostri discorsi apparentemente sereni: avere paura - fare paura. Molti preferiscono che in classe nessuno sappia che sono sinti; ogni giorno sperano che il pulmino con la scritta Sucar Drom, che li porta a scuola, si fermi lontano dagli sguardi di professori e compagni. Il desiderio di restare fedeli alle proprie tradizioni confligge in loro con quello di confondersi con la maggioranza dei coetanei; la ferita è profonda e basta poco per creare tensione.
La lettera di un signore di Bigarello che si definisce leghista, comparsa sulla Gazzetta del 24 giugno, nel sollevare il problema dell’educazione dei piccoli rom, esprime indignazione per gli insegnamenti che, a parer suo, questi bambini ricevono dalle famiglie: privati della scuola e della socialità comunitaria di tutti i “nostri” bambini, imparano solo il furto e l’elemosina, se non di peggio. Se i provvedimenti di varia natura che compongono come un sinistro mosaico il “pacchetto sicurezza” procederanno, questi bambini saranno costretti a conoscere sempre più spesso anche le irruzioni notturne nei luoghi in cui vivono e perquisizioni, fermi, intimidazioni, schedature. Anche se non faranno niente di male, anche se sono cittadini italiani; gli accadrà per il nome che portano, per il gruppo al quale appartengono. Saranno educati alla paura e alla diffidenza.
Capita che altri bambini, per il nome che portano, per il Paese da cui provengono, per la religione dei loro genitori, vengano quasi tacciati di precoci inclinazioni terroristiche. Anche il loro nome qui non verrà fatto. Non l’ha fatto nemmeno il giornale che mesi fa ha sbattuto un bimbo di otto anni in prima pagina; il nome era taciuto solo per non incorrere in pesanti sanzioni, evidentemente. La Voce di Mantova, l’9 marzo 2008, dedicò a un bambino nordafricano di otto anni un titolo di prima pagina a cinque colonne. La piccola peste della scuola elementare Pomponazzo è un nordafricano, recita l’occhiello. Il titolo: Un bimbo terribile colpisce ancora e nel sommario: I compagni terrorizzati lo fuggono, preoccupati gli insegnanti. Come se non bastasse, all’interno, nella cronaca locale, Bimbo terribile: fuggi-fuggi a scuola. Minacce agli insegnanti e violenza in classe. Terrore alle elementari Pomponazzo. Interrogazione della Lega in Comune contro il bambino nordafricano e suo padre assistito cronico e violento. Nell’articolo il nome del bimbo non viene fatto, ma si racconta da dove proviene e dove vive esattamente, ci dicono che frequenta la seconda in una nota scuola elementare della città dove le classi seconde sono solo due; ci informano che è stato sospeso dal dirigente scolastico e che suo padre riceve assistenza dal Comune.
Il bambino senza nome diventa così facilmente individuabile; un'altra piccola preda, il simbolo di un disagio che deve essere allontanato dalla felice quotidianità dei ‘nostri’ bambini. Con che occhi sarà stato guardato nella scuola che frequenta dopo essere diventato un mostriciattolo sbattuto in prima pagina? Occhi onesti, fortunatamente: le insegnanti e la stragrande maggioranza dei genitori della classe, hanno preso severamente posizione contro questa strumentalizzazione di un disagio non più grave di molti altri. Le lettere di protesta sono state portate a entrambi i quotidiani locali. La Gazzetta di Mantova, coerente con strategie editoriali ormai consolidate in città, non le ha pubblicate per non entrare in conflitto col quotidiano concorrente. La Voce ha pubblicato una lettera di contestazione dell’articolo firmata da 30 genitori della sua classe, la dura presa di posizione del professor Enzo Gemelli (commentata in tono sprezzante dal direttore del giornale); mentre un articolo redazionale, dal gusto pesantemente ironico, ha sintetizzato, svuotandole, le argomentazioni espresse dalle insegnanti in una lettera non pubblicata.
Il bambino nordafricano, senza nome ma con un’identità ormai ben definita, rimane privo delle parole spese in sua difesa dalle sue maestre, le sole persone adulte che lo conoscono bene. Per le bambine e i bambini, contro le discriminazioni e le violenze che subiscono, il nostro osservatorio avrà occhi particolarmente attenti.
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